Il “lavoro flessibile” in Italia ha ucciso il diritto al lavoro

Il “lavoro flessibile” in Italia ha ucciso il diritto al lavoro

Editoriale del direttore responsabile Emilia Urso Anfuso

Su cosa si basa una nazione a regime democratico e considerata civile? Su pochi ma fondamentali elementi, uno dei quali è il diritto al lavoro.

Ecco gli articoli della Costituzione Italiana che sanciscono diritti che, all’atto pratico e ai nostri giorni, non si sa come far valere:

Articolo 1. L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

Art. 4. La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

Articolo 35. La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori.

Articolo 37. La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale e adeguata protezione. La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato. La Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione.

Per ciò che riguarda la parità di diritti tra lavoratrici e lavoratori, sappiamo bene come questo criterio sia disatteso in Italia, al punto da aver persino introdotto le “quote rosa” che, a mio parere – ma anche a parere di molte italiane e italiani – si traduce in una maggior marginalizzazione, ghettizzazione del genere femminile nel mercato del lavoro.

Le quote rosa, infatti, sono un elemento che invece di sanare un problema radicato nella società italiana, evidentemente ancora poco pronta ad affrontare il tema relativo alle PERSONE in quanto tali e alla loro presenza nella società e non trattare le persone secondo i generi sessuali, hanno generato maggiore emarginazione e riduzione dei diritti delle lavoratrici.

Aggiungo un’informazione importante per tutti i cittadini italiani: la legge 300, quella che avviò lo Statuto dei Lavoratori, fu approvata il 20 Maggio del 1970, ma come molte riforme varate nel corso degli anni in Italia e a sostegno dei diritti dei cittadini, dopo l’approvazione questa legge subì una lenta, ma metodica, controriforma. Come la cancellazione dell’importante art. 18 ad opera del governo Renzi.

Le responsabilità politiche contro il diritto al lavoro

In un libro scritto dal repubblicano Oscar Mammì, dal titolo Tornare ala politica e pubblicato nel 1992, l’autore chiarì come dal 1948, anno della costituzione della Repubblica Italiana, i governi italiani avevano lavorato alacremente e fondamentalmente, per modificare la legge elettorale ai danni degli elettori.

In poche parole, dopo la pubblicazione della Costituzione più bella del mondo, si lavorò politicamente al fine da renderla inefficace, inapplicabile o inapplicata. Troppe belle intenzioni in questa nostra Costituzione, sia mai che il popolo diventi realmente “sovrano”…

Il progetto di togliere potere al popolo, quindi, ha coinvolto per anni schiere di politici di ogni sorta e colore e tornando al tema centrale, quello relativo al diritto al lavoro, quale strumento migliore potevano usare in politica per abbattere i diritti civili, se non quello di negare, arrivare addirittura a distruggere, il diritto al lavoro?

Un cittadino senza lavoro o con lavoro ma senza diritti, è un cittadino senza potere.

Lavoro flessibile ovvero: come togliere diritti ai lavoratori attraverso una riforma

La conosciamo tutti con il nome del suo promotore, Marco Biagi, ma si tratta della Legge 30/2003.

Una somma di motivi portò a quella riforma che, come tutte le riforme, doveva e poteva essere rivista, rimodulata secondo le esigenze reali di una popolazione che, troppo spesso, le riforme le subisce anche a causa del fatto che un conto è approvare, un altro mettere in atto, concretizzare. Un esempio per tutti, la Legge Basaglia che doveva riformare il settore psichiatrico donando dignità a quel tipo di malati.

L’attuazione delle belle idee dello psichiatra Franco Basaglia, lo specialista che voleva restituire dignità e libertà ai malati mentali, sarebbe costata un mucchio di denaro rispetto al fare un’unica cosa: aprire le porte dei manicomi e rendere libere persone comunque bisognose di terapie e attenzioni diverse dalle costrizioni a letto, dai TSO senza regole, da elettrochoc che bruciano i neuroni e la memoria in maniera disorganizzata…

Torno sul tema del diritto al lavoro affrontando quindi uno dei nodi che lo hanno reso meno garantito: lo spezzettamento, la convinzione che creare una moltitudine di soluzioni contrattuali avrebbe fatto rinascere un mercato del lavoro che, durante gli anni di piombo, in Italia stava mostrando in maniera lampante una parte dei motivi delle sparatorie per le strade nazionali.

Rendere “flessibile” il lavoro, come veniva – e ancora adesso viene – propagandato, non esercitò una maggiore e migliore prospettiva lavorativa per l’italiano medio, anzi.

Privati delle giuste garanzie di prosecuzione del percorso lavorativo, stracciata ogni regola che imporrebbe le ferie, il diritto alla malattia e il versamento di contributi necessari al maturare della pensione a fine carriera, gli italiani si trovarono incastrati dentro una gabbia stretta da cui si intravvede si la luce, ma senza poterne godere.

L’ideazione dei contratti co.co.co oppure co.co.pro, regalarono solo un miraggio, ma per rendersene conto, la popolazione dovette passare per lungo tempo attraverso le maglie del lavoro instabile, mal retribuito e senza i diritti canonici.

Chi trae vantaggio dalla distruzione del diritto al lavoro?

Gli unici a trarre davvero beneficio da questo tipo di rivoluzione, fin dai primi tempi dopo il varo della legge 30/2003, sono i datori o meglio, certi datori di lavoro.

Non mi piace massificare e d’altra parte è impossibile farlo. Ogni settore umano non può essere rappresentato in maniera monolitica e per tante e ovvie ragioni, è però vero che – genericamente parlando – la riforma Biagi sostenne, fin da subito, le industrie, le grandi imprese, le lobby.

Il lavoratore, molecola in un sistema abnorme alla comprensione del singolo individuo, al cosiddetto uomo comune, rappresentava e rappresenta un costo. Da cancellare.

Raramente si è affrontato il tema complesso e delicato relativo ai diritti dei lavoratori dalla prospettiva del guadagno che le industrie, le imprese e anche i piccoli imprenditori acquisiscono unicamente grazie ai lavoratori. Col passare del tempo, con l’avvento di problematiche sociali, politiche ed economiche sempre più complesse, in Italia si è persa l’attenzione a un elemento fondamentale: il dibattito pubblico sui temi centrali.

Se non è un tema centrale il diritto al lavoro e le giuste garanzie per il lavoratore, qualcuno deve spiegarmi quali sono, oggi ma già da anni, i temi centrali e prioritari in un paese come l’Italia.

Di lavoro, dalle nostre parti, si parla solo per fini elettorali. I candidati sono ormai talmente consapevoli di dover far praticamene nulla dopo esser stati eletti, unica priorità evidente della politica nostrana, da non perder nemmeno tempo a sviluppare uno straccio di programmino da presentare agli elettori.

Il mantra se lo passano da un partito all’altro, uguale, di elezione in elezione, senza contenuti se non le generiche promesse di “lavorare per i diritti dei lavoratori“. D’altra parte, l’italiano medio sa che se vuole lavorare deve poter dimostrare di avere i propri assi nella manica: cambia mai nulla anche sotto questo aspetto. Ce l’hai l’amico dell’amico dell’amico? Bene.

Altrimenti mettiti in fila e fai richiesta di qualche sussidio, tanto una quota la paghi tu ma manco te ne accorgi…

La cancellazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori

Un accenno a questo evento è doveroso perché illumina, anche se tristemente, un pezzo del percorso delineato nel corso dei decenni per giungere, passo dopo passo, a togliere diritti ai lavoratori.

L’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori era quello che, in massima sintesi, non permetteva il licenziamento “senza giusta causa“.

Tra i punti fondamentali dell’art.18 prima della riforma avvenuta durante il governo Renzi, troviamo questo passo: “il Giudice con sentenza dichiara inefficace il licenziamento o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo ed ordina, inoltre, al datore di lavoro di stabilimento che occupa più di 15 dipendenti di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro“… etc.

Cancellare l’art. 18 ha rappresentato un grande passo indietro nella storia delle lotte per il sostegno dei diritti dei lavoratori ma anche un altro grande passo a sostengo delle imprese e dei datori di lavoro in generale che da quel momento, hanno potuto giocare anche la carta del “ti licenzio e non devo nemmeno spiegare perché“, eliminando così, concretamente, il criterio di “posto fisso” e di “contratto a tempo indeterminato”.

In effetti, i contratti a tempo indeterminato stipulati dopo la riforma che ha cancellato questo articolo dallo Statuto dei Lavoratori, rendono possibile il licenziamento senza dover dare troppe spiegazioni, se non quella – la più utilizzata da qualche anno – delle congiunture economiche negative che non permettono all’azienda di proseguire il rapporto…

Tra i motivi fondamentali che portarono a varare questa riforma, denominata Jobs Act che indica il decreto legislativo 81/2015, troviamo le insistenti richieste, da parte delle imprese, di poter ottenere una soluzione contro gli ingenti costi che, spesso, derivavano dall’impugnazione del licenziamento da parte del lavoratore oggetto di licenziamento.

Così, invece di lavorare con maggior attenzione per tutelare, anche, i lavoratori onesti, si è pensato di trovare la soluzione migliore per le imprese: dare un calcio nel sedere al lavoratore qualora si ritenga opportuno farlo. E chi se ne frega degli impegni assunti da un padre o da una madre di famiglia grazie a quel contratto, chi se ne frega se un giovane evita come la peste di crearsi un nucleo familiare a causa della troppa flessibilità e mancanza di tutele sul lavoro.

Un altro passo avanti fu fatto verso il declino dei diritti civili, ma è anche necessario riflettere su un punto: la riforma che cancellò l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori fu varata durante il governo Renzi, ma fu un cavallo di battaglia, per anni, dei governi Berlusconi e anche dei precedenti. Sostenere le imprese, per il mondo politico, è più vantaggioso di sostenere milioni di lavoratori che, alla fine e prove inconfutabili alla mano, si recano sul posto di lavoro a ogni costo, pure senza stipendio, pur di poter dire: “Sto lavorando“.

Vizi di forma che in un paese come l’Italia diventano consuetudine e vizio mentale collettivo.

co.co.co: lavorare ma senza garanzie

Dopo l’approvazione della legge Biagi nel 2003, fu necessario un periodo di assimilazione del grande cambiamento per comprendere le peculiarità del lavoro flessibile.

Effettivamente, solo dopo qualche anno i primi lavoratori flessibili iniziarono a capire che tutto questo vantaggio non lo stavano ottenendo a lavorare sodo, anche oltre l’orario descritto in quel paio di fogli che rappresentavano l’idea di un contratto di lavoro e senza un diritto uno che mettesse al sicuro dalle intemperie tipiche della vita, salute in testa.

Ricordo discorsi tipo: “Mi hanno proposto un co.co.co. e l’ho accettato, ero felice. Oh, mica pensavo che avrei lavorato più degli impiegati con contratto a tempo indeterminato ma senza nemmeno il diritto alla malattia o a un giorno di ferie. E’ una fregatura“! Ma la fregatura l’avevano ormai presa e che fai, stracci il contrattino/specchietto per le allodole?

Così, si è proceduto verso il dirupo, si è corsa una gara a chi accettava prima un contratto atipico, flessibile e tanto, tanto utile a distruggere per sempre anche il diritto alla pensione, o a mettere due soldi da parte o a creare una famiglia.

Quando si parla di “figli bamboccioni a casa con mamma e papà fino a oltre i 40 anni”, se da un lato è vero che in molti casi manca la capacità di esplorare il mondo autonomamente, dall’altro è necessario scrutare un po’ della recente storia per comprendere come la società attuale, con tutti i suoi sfasci, derivi anche da certe riforme.

Le soluzioni inefficaci tanto care ai governi italiani

Di soluzioni inefficaci la storia italiana è ricca. Bisogna infatti prendere seriamente in considerazione una riflessione da fare collettivamente: al termine soluzione non sempre si associa la parola positiva.

Le misure varate nel corso degli anni nel nostro paese, non sempre hanno sostenuto i diritti dei lavoratori ma hanno contribuito, questo è tangibile, a manifestare una scarsa attenzione per ciò che riguarda il diritto non solo di lavorare quanto di vivere perché alla fine, se non hai la garanzia di produrre denaro, per quanto poco, con un contratto di lavoro degno di questo nome, come fai a procedere giorno dopo giorno, a pagare ciò che è necessario alla sussistenza degli individui, come fai a curarti in un paese che ha cancellato il SSN o come fai a onorare gli impegni presi per acquistare una casa o se hai ottenuto un finanziamento e devi restituirlo?

In alcuni casi, si è urlato persino vittoria per la “cancellazione della povertà“, quando nella realtà dei fatti si era creata una brutta copia di quella riforma Hartz IV che in Germani, si persino in Germania, ha creato dissesto all’economia delle famiglie della classe media e ha distrutto il diritto al vero lavoro.

I bonus per i lavoratori, fin dai tempi del governo Renzi, non sono altro che piccole pezze a colori atte a rammendare coperte sgualcite, vecchie e con tanti buchi. Buchi creati dalla mala gestione del denaro pubblico che ormai da troppi decenni è sperperato allegramente, per poi penalizzare tutta la popolazione nazionale urlando alla crisi economica, agli sperperi ad opera degli evasori fiscali, che esistono è ovvio, ma non sono certo i pensionati o i lavoratori, che di imposte ne pagano parecchie e all’origine.

Rammento come, ogni anno, in Italia la Pubblica Amministrazione sia capace di gettare nel secchio oltre 200 miliardi di euro. Ma la colpa è di noi cittadini, brutti e cattivi, che per punizione dobbiamo pure vivere camminando su un filo, ad altezza variabile e senza rete sotto.

Di seguito un paio di link ad articoli sul tema dell’enorme spreco di denaro da parte della Pubblica Amministrazione italiana:

https://tg24.sky.it/economia/2020/08/29/pubblica-amministrazione-sprechi

https://www.money.it/Sprechi-inefficienze-Stato-PA-costo-200-miliardi-evasione-fiscale-Italia

A governi e imprese, nella maggior parte dei casi, tutto questo interessa zero.

La vita, la serenità, il futuro del cittadino medio italiano non sono al centro dell’interesse di chi non subisce questi problemi che palesemente crea.

Esistono soluzioni alla drammatica situazione del mercato del lavoro in Italia che, attenzione, non è che manchi ma è semmai, regolato malissimo e di conseguenza, anche quando si raggiunge l’agognato posto di lavoro significa tanto ma significa anche nulla considerando la volatilità di questo criterio?

No e non per il fatto che non esistano buone pratiche da mettere in campo. Molto più banalmente, ed è ormai chiaro, nessuno è davvero interessato a creare un sistema di garanzia per i lavoratori, che tanto, in un paese come l’Italia, tirano a campare ugualmente…

In un prossimo articolo approfondirò i temi legati alle normative relative ai contratti parasubordinati, il loro funzionamento e i diritti dei lavoratori che sono assunti con questi contratti “flessibili”.

Nel frattempo, buona riflessione e buone feste a tutti.

***Foto di copertina di United Artists – ebay, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=29131104

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