Prontuario della Distensione – Distensione significa indifferenza e… vigliaccheria?

Prontuario della Distensione – Distensione significa indifferenza e… vigliaccheria?

Rubrica a cura del dottor Claudio Rao

Il senso del dovere, la sensazione di tradire la fiducia dei propri cari o lo spirito di collaborazione al lavoro possono impedirci di rilassarci, di preservarci, di concederci una pausa peraltro necessaria. Per non sentirci vili, per non sembrare dei pusillanimi.

Vigliaccheria è una parola pesante, un’etichetta pressoché insopportabile per tutti noi. Ma cosa significa realmente questo termine? Il dizionario Treccani online la definisce così: « Azione, comportamento di chi sopraffà, insulta o danneggia altri con sfacciata protervia, nella fiducia o sicurezza di restare impunito ».

In un senso più largo, potremo dire che ci si comporta “da vigliacchi” quando ci si rifiuta di agire nel modo considerato giusto, morale, onorevole dalla cultura nella quale viviamo. Nella civiltà giapponese, per esempio, il suicidio è un atto di coraggio, mentre nella nostra viene sovente percepito come un atto di vigliaccheria.

Individualmente poi, colui che si rifiuta di battersi, di lottare in virtù di valori pacifisti o nonviolenti sarà percepito come “un vigliacco” da colui che ha dei valori guerrieri, di competizione.

Il termine vigliaccheria, dunque sembra legato più ad un giudizio morale che a un difetto reale della persona. Un giudizio che sembra definire più colui che lo formula di colui che lo riceve.

Potremmo sintetizzare così il pensiero di chi attribuisce l’etichetta, il labello della viltà: « Secondo i miei valori, ci sono due tipi di persone: chi resiste, lotta, è coraggioso e quelli che staccano la spina, che abbassano le braccia fronte alle avversità. Se non lotti strenuamente, significa che sei un vigliacco e non meriti il mio rispetto ».

Se qualcuno ci considera vigliacchi significa che non ha i nostri stessi princìpi, i medesimi valori morali.

Queste persone hanno generalmente una visione binaria delle cose. Nella vita c’è il bene (che loro servono e rappresentano) e il male. Il buono e il cattivo. Il bianco e il nero. Un orientamento semplicista che li aiuta a reperirsi, ma che complica loro le cose perché – considerando la distensione una forma di vigliaccheria – non si concederanno mai un momento per “staccare la spina”!

Immaginate di essere ai ferri corti col vostro capoufficio e che abbiate anche la sensazione di essere oggetto di molestie, di mobbing come si dice attualmente. Costui vi critica, vi umilia pubblicamente, vi assegna sempre e solo lavori marginali o fastidiosi… Vi confidate ad un amico che vi risponde: « Devi lottare, importi. Finalmente hai un lavoro che ti piace, allora non devi mollare adesso! ». Dicendovi ciò, vi mette in una prospettiva di “vincitori e vinti”, dà una lettura binaria della situazione. Se resti vinci, se cedi e te ne vai perdi

Ho avuto nei miei studi professionali qualche caso di questo genere con un capo o un coniuge manipolatore. Molti erano convinti che andandosene avrebbero “perso la partita”. Non realizzando invece che questa battaglia sarebbe stata una dolorosa sconfitta. Rimanendo – cosa più grave – avrebbero finito per rientrare nel gioco del loro manipolatore, guidato dalla logica vincitori e vinti che cerca d’imporre a tutto il suo entourage.

Questo non significa che dovessero necessariamente andarsene, ma che non sarebbero stati dei “vigliacchi” a farlo qualora non si fosse trovata un’altra soluzione.

Il problema in questo genere di circostanze è che per non sembrare dei vili, dei perdenti, le vittime reagiscono troppo tardi. Ad immagine della rana nella pentola dell’acqua calda.

Sono molti i professionisti esauriti dai conflitti all’interno della loro azienda, dalla quantità del lavoro; stressati al limite del burn-out. Con costoro, i colleghi psicologi o Pedagogisti Clinici® cercano strategie per migliorare la situazione: stabilire una lista delle priorità, prevedere le urgenze, migliorare la qualità della propria comunicazione, sviluppare la capacità di affermare il proprio punto di vista, suffragare l’autostima, etc. E, in base alle informazioni che ne ricavo da formazioni o riviste specialistiche, queste strategìe sono efficaci nel 90% dei casi. Tuttavia, quando nulla viene modificato, quando la gerarchia “non ne vuole sapere” o – peggio – si serve di certi atteggiamenti ai fini produttivi, il suggerimento è quello di voltare le spalle ad una situazione divenuta tossica. Molte delle vittime, tuttavia, obiettano che “non possono” perché avrebbero l’impressione di non essere professionali, di rinnegare i proprî valori, di tradire i loro colleghi… Questo genere di reazione richiede a noi professionisti un lavoro più attento e specifico atto a dimostrare che si tratta semplicemente di preservare la propria integrità psicofisica.

Ciò che è importante è di non valutare con criteri moralistici le nostre azioni, ma di capire che è inutile ostinarsi in qualcosa che ci esaurisce fisicamente e moralmente e non produce in risultati soddisfacenti.

Non è pusillanimità il capire che non è possibile fare del proprio meglio in certe condizioni. Non è vigliaccheria o mancanza di professionalità lasciare un incarico o cambiare lavoro perché le nostre capacità vengono impedite, limitate, inceppate. Al contrario, è un atto di coraggio il prenderne coscienza e un gesto di rispettabile professionalità il cessare di operare in condizioni che ci impediscono di realizzare un buon lavoro!

Un gesto esemplare inoltre fronte ai colleghi che constateranno che non sono sempre obbligati a “tollerare l’intollerabile”. 

Infine è un atto forte e determinato per segnalare all’azienda un grave problema del personale o del management che è meglio evitare di insabbiare nell’interesse di benessere, efficienza e produttività.

Meno “moralina” dunque e più rispetto per noi stessi e per le scelte ragionate, capaci di garantirci risultati qualitativamente migliori.

***Chi desidera porre domande al dottor Claudio Rao può scrivergli alla mail claudio.rao@gliscomunicati.it

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Gli Scomunicati è una testata giornalistica fondata nel 2006 dalla giornalista Emilia Urso Anfuso, totalmente autofinanziata. Non riceve proventi pubblici.

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