Robilante: l’ultima frontiera

Robilante: l’ultima frontiera

Lettera al direttore di Claudio Rao

Una storia di vita vissuta può diventare la spia di un grave disagio sociale.

Il dramma dei nostri anziani

È una storia di famiglia. Una storia come tante. Di sofferenza, di grinta, di resistenza, di rassegnazione. D’impotenza. Ma non di sottomissione allo status quo.
Una storia come se ne vedono tante: anziani che assistono altri anziani. Figli neo pensionati e genitori venerandi in piena senescenza. In una società che nulla ha fatto per prevedere, prevenire, sopperire.

Una sanità ridotta ai minimi termini, un personale – in gran parte straniero – che la psicologia geriatrica non l’ha neppur letta sui manuali; nonostante i percorsi universitari richiesti a medici e infermieri.

Tra oasi di dedizione e buona volontà, timidamente espletate in ambienti spesso ostili ed ancorati a rigidi protocolli che nulla hanno a che fare con il benessere del paziente.

I grandi anziani sono un grave problema sociale. Eppure non sono solo una spesa sul bilancio di uno Stato ricchissimo sul fronte ucraino ed efficientissimo sul problema Covid.

I nostri vecchi – immagine di ciò che noi tutti saremo – sono una fonte inesauribile di ricordi, un bagaglio di esperienza, una ricchezza umana e sociale.

Sono coloro che ci hanno educati e formati, che hanno lavorato tutta una vita per permettere all’Italia di risollevarsi dalla guerra 40/45, di vincere il terrorismo degli anni 70, di arginare la mafia degli attentati a Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino, di transitare dalla lira all’euro, dall’Italia all’Europa. Come? Semplicemente con il loro impegno, i loro sacrifici, la quotidiana dedizione alla cellula fondamentale di ogni società: la famiglia, i figli. Noi.

In cambio la nostra umanità ci dovrebbe semplicemente invitare a trattarli con rispetto, accompagnandoli verso una fine – la più dignitosa possibile – con l’affetto e la riconoscenza che è loro dovuta.

Un vita di contributi, di tasse pagate, di impegni e di serietà che dà loro diritto a pensioni risibili e incapaci di sostenere le spese che le loro disabilità richiedono. Con risposte sanitarie evanescenti, inadeguate, insufficienti.

Normative assurde e perfino demenziali che inceppano una burocrazia borbonica incapace di responsabilità individuali e con funzionari ottusamente ligi a codici, codicilli, leggi e decreti.

Un problema sociale

Paolo Del Debbio, in una brillante riflessione del 2 agosto scorso su Panorama definisce cruciale la “presa in carico” da parte dello Stato “di chi è in età avanzata”. Perché – scrive – « Il tassello “anziani” nel puzzle familiare », tutt’altro che marginale, interessa trasversalmente tutta la nostra società.
Citando Ferruccio De Bortoli, Del Debbio, illustra come « In una società che purtroppo invecchia sempre di più, il crescere della fragilità si accompagna alla perdita della dignità, alla cancellazione della cittadinanza».

Discesa in campo

Torniamo sul campo. Perché, se un conto sono le considerazioni generali, altro sono i vissuti individuali e familiari che ci troviamo a condividere e a subire.
Abbandoniamo per un istante le chiassose metropoli brulicanti di vita e troppo frenetiche per soffermarsi ad ascoltare gli ultimi rantoli dei proprî vecchi. Ed affacciamoci con doverosa umiltà da coloro che possono pagarsi lussuose cliniche a quattro stelle a quella classe media in via di estinzione fino a quella, sempre più numerosa, di coloro che vivono… sopravvivendo.

Prendiamo un capoluogo del Piemonte meridionale (regione privilegiata fronte a molte altre di questo martoriato Paese): Cuneo. Cittadina a dimensione umana dove accoglienza, tolleranza, cordialità restano ancora di moda, insieme – ben inteso – ad una discrezione tutta piemontese.
Circolando per le vie, anziani con deambulatori e sedie a rotelle incrociano scolaresche in uscita sul territorio, lavoratori che si concedono uno spuntino al tavolo di un bar e frettolose signore che si ritagliano il tempo per una rapida spesa.

In questa città vi sono diverse strutture per accogliere anziani autosufficienti e non. Due ospedali, la ASL e tutto quanto, andando avanti con gli anni, prima o dopo, servirà a tutti i suoi cittadini.

Tra le RSA che ho avuto modo di conoscere e visitare ce n’è una che farà l’oggetto di un prossimo articolo sulla nostra testata per la sua brillante gestione umana ed organizzativa, nonostante i problemi che deve affrontare ogni giorno. Un’esperienza diretta a cui tengo dare voce e il dovuto riconoscimento. Perché tanta è la buona volontà e di perle come questa, nonostante tutto, ce ne sono ancòra in questo Paese.
Come sono tante le pecore nere che, da sole, offuscano l’angolino di cielo azzurro, a vòlte persino sul medesimo territorio.

Un’istituzione tra pubblico e privato

Una realtà che ho purtroppo toccato con mano già in passato, è quella dei centri di lunga degenza dove gli ospedali, dopo aver operato per la guarigione o quantomeno la soluzione clinica del problema di salute che li ha condotti lì, posteggiano i nostri anziani.

Dopo l’amara esperienza di mio padre, deceduto in un centro similare a pochi chilometri da Cuneo in periodo ante-Covid, mi sono ritrovato a rivivere un’analoga esperienza con mia madre in tutt’altra località, vicina al medesimo capoluogo.

Mi si perdonerà il caso personale, ma così facendo si eviteranno due rischi: la violazione della privacy di terzi e lo scrivere “per sentito dire”. Qui l’esperienza è un vissuto familiare assai diretto che mi sforzerò di riferire nel modo più obiettivo e distaccato possibile.

Siamo a Robilante, un grazioso paesino a una mezzora da Cuneo. Qui troviamo una casa di cura privata convenzionata col SSN (servizio sanitario nazionale) dedicata a pazienti con patologie croniche di tipo neuro-motorio, cardiologico e ortopedico. Posto all’interno di un parco, ci accoglie in un mare di verde costellato di abeti, ippocastani ed aceri.

Il Centro climatico è suddiviso in tre padiglioni, ciascuno con una propria specificità. Il padiglione A adibito a casa di cura RSA (che ha di fatto vocazione ad essere l’ultima dimora), il padiglione B per la lungodegenza e il padiglione C per la riabilitazione.

La struttura, fondata nel 1927, è stata interamente rinnovata e si presenta con dei bei colori vivaci in locali puliti ed accoglienti. L’accettazione è sita in un locale luminoso al centro dell’istituto climatico e sembrerebbe la hall di un lussuoso albergo.

In bacheca scopriamo che è attivo uno « Sportello di ascolto per la prevenzione del disagio psicologico e la promozione del benessere organizzativo ». Il che lascia immaginare un ambiente lavorativo positivo e ben monitorato in cui ciascuno può esprimere il proprio punto di vista per il bene comune.

Sembrerebbe il migliore dei mondi possibili sito in un parco di 75.000 metri quadrati a circa 700 metri di altezza s.l.m.

Tuttavia, andando a spulciare tra le opinioni dei pazienti sul sito www.qsalute.it/istituto-climatico-di-robilante, l’impressione si fa decisamente meno bucolica¹.

¹ «Mia nonna, ricoverata il 19/11/2021 per riabilitazione in seguito a fibrosi polmonare, ha passato qui 11 giorni. Giorni in cui non è stata lavata, ha visto il fisioterapista una volta ed è stata costretta all’uso del pannolone in quanto nessuno l’accompagnava in bagno…

Dovevano farle riabilitazione ed aiutarla a camminara, invece è uscita peggio di prima. Ho fatto segnalazione all’Asl perché queste cose non devono accadere» di Antonella Rinaudo.

« Voglio esprimere il mio malcontento totale per il trattamento ricevuto da mio padre durante il mese di luglio 2023, ricoverato nel blocco B, e per cui formulerò un reclamo formale scritto via Pec all’ASL di Cuneo.

Personale impiegato alla reception: maleducato, scontroso, totalmente privo di sensibilità e cortesia. Infermieri: ho assistito a un maltrattamento vergognoso di un ospite da parte di un infermiere, lo ha aggredito verbalmente, urlando e mettendolo a disagio in modo pesante.

Ero presente io, il medico al piano e alcuni Oos, ma nessuno ha detto/fatto nulla. Medico del piano: disinteressato, dato che ho dovuto chiedere più volte un colloquio per sapere l’evoluzione della situazione medica del mio famigliare, di cui lui era all’oscuro, in quanto non mi ha mai dato un riscontro professionale e interessato.

Si è mostrato felice quando gli ho comunicato che avrei portato via mio padre prima della dimissione programmata. Fisioterapia: inesistente, al blocco B la fisioterapia non esiste. Cibo: pessimo. Le/gli Oos fanno ciò che possono, sono le uniche figure che salvo » di Clara (patologia trattata: Riabilitazione).

Se è pur vero che le riflessioni scritte a caldo e dietro un parziale anonimato possono essere discutibili e vadano prese con le dovute riserve, esse offrono quanto meno utili spunti di riflessione. E, come sappiamo, sovente la verità sta nel mezzo.

Nulla di meglio che viverne in prima linea l’esperienza per poterne verificare la portata.

Cronaca di vita vissuta

Esporrò quanto segue come un semplice diario di bordo, facendone un diario scevro da riflessioni o valutazioni personali. Evitando così di suggerire insidiosi rapporti causa-effetto. Un caso in cui temo molti si riconosceranno. Testimonianza e monito.

Mia madre 94enne disabile ex lege 104 non vedente a causa di una maculopatìa, dopo un lungo soggiorno all’ospedale, viene inviata all’Istituto climatico di Robilante nel reparto B adibito alla lungodegenza.
Il giorno 14 /09 /2023, successivo al trasferimento, mi premuro di conferire col personale sanitario, non avendo avuto indicazioni precise sull’ultima risonanza magnetica eseguita in ospedale il giorno precedente al trasporto interospedaliero.

L’infermiere di servizio mi ride in faccia. Poi mi fa accomodare nel suo ufficio e mi spiega che essendo appena rientrato non ha ancora avuto modo di esaminare la sua cartella sanitaria.

La sfoglia rapidamente ma mi precisa che prima dell’inizio della settimana successiva non sarebbe stato possibile avere chiaro il quadro della situazione. Siamo a giovedì.

POsservo che su un tabellario appeso in infermeria è notato il nome di mia madre con la relativa patologìa. Veniamo bruscamente interrotti da una signora che afferma di aver bisogno di parlarmi per acquisire notizie. Si tratta del medico di guardia che sostituisce il titolare attualmente in ferie.

Una volta nel suo studio, dopo un ascolto semplicemente formale, mi precisa di aver già parlato con la direttrice sanitaria. Le sue parole sono chiare e senza appello: « Alla sua età ogni cambiamento è come scendere un gradino. In qualunque momento può subentrare un’infezione capace di provocarne la morte».

Non una parola sulla terapìa adottata o da adottare, sulle attività previste per una riabilitazione, sulle cure da prodigarle anche soltanto a livello psicologico dai familiari. Colpevolmente, stordito e prostrato, non interpello, non pongo domande.

Esco e cerco su internet. Trovo scritto testualmente che « Per trasferimento di paziente critico si intende un trasporto primario che consente di avere accesso al livello di cura superiore perché una determinata struttura non è in grado di fornirglielo ».

Il giorno successivo 15 /09 /2023 è mia moglie a chiedere lumi. Si rivolge all’infermiere (lo stesso del giorno precedente) per manifestarle le sue perplessità. Da mesi, a domicilio e durante il suo soggiorno in ospedale, sua suocera beneficiava alternativamente di due flebo: una fisiologica (per integrarne l’idratazione) e l’altra glucosata (per integrarne la nutrizione). Cosa sospesa dal suo ingresso in “Lungodegenza”. Le viene risposto: “In ospedale le hanno tolto tutto e non ci hanno dato disposizioni di farlo. Poi – precisa – l’idratazione può andare a finire nei posti sbagliati”.

Mia moglie non si spiega in base a che cosa al suo ingresso a Robilante e a seguito della visita protocollare, sia stato deciso di non riprendere l’idratazione. Le viene risposto che “La direttrice sanitaria e i dottori hanno una grande esperienza e sono loro a dettare le linee guida agli infermieri che eseguono quanto prescritto, attenendosi alle disposizioni”. L’infermiere sfoglia il fascicolo sanitario della paziente aggiungendo che “La situazione è seria”. Poi, visibilmente sorpreso, afferma : “Ah, ma ha anche questo?Ah, ma vedo che prende farmaci per problemi cardiaci…”.

Chiama il medico di servizio. Il dottore, volendosi rassicurante: “Per adesso aspettiamo. Poi vediamo. Comunque stia tranquilla perché se riterremo opportuno fargliele [alludendo alle flebo] poi gliele faremo”.

Sorpresa da questo temporeggiare, mia moglie manifesta il timore che quel “presto” sia “troppo tardi” per recuperarne una decadenza iniziata col protrarsi ingiustificato del suo soggiorno in ospedale e già ben visibile. Il dottore conclude affermando che l’avrebbero tenuta sotto controllo e “lo avrebbero fatto se lo avessero ritenuto opportuno”.

Segue il fine settimana in cui – com’è noto – tutto resta tendenzialmente in stand by.
Il mio sguardo si fa più attento e il mio fare più guardingo. Gli Operatori Socio-Sanitari che hanno diretto contatto con i ricoverati e i familiari in visita sono cordiali e dialogici; chiedono notizie dei primo-arrivati.

La prima domanda è « Quanti anni ha? ». Quando preciso 94, il sorriso, il leggero scuotimento rassegnato della testa, talora accompagnato da “è già arrivata ad una bella età” mi pare piuttosto eloquente. Soprattutto indicativo di un primo incasellamento“a prescindere”.

Come Pedagogista Clinico®, [mi si perdoni l’inciso] formato a considerare la globalità della persona di ogni età e condizione, in particolare a verificarne le potenzialità, abilità e disponibilità (ancorché residue) sulle quali operare, sono inorridito da tutto ciò che mi pare etichettare, ingessare, definire. E, in ultima analisi, giustificare una passività terapeutica fatale per i grandi anziani.

La stanza in cui è ricoverata mia mamma non è dotata di orologio, né di radio o di televisione; alcuno stimolo o richiamo alla realtà, fatti salvi i lamenti dei vicini di letto (sono in 4 nella stessa camera, dotata di servizî igienici conformi).

Lunedì 18/ 09/ 2023, giornata cupa, buia e piovosa. La stanza è piombata nel buio. Nessuna luce accesa. Tutti dormono.
Testimoni oculari mi affermano che diverse volte il personale si limita a portare il pasto appoggiandolo al comodino, passando a ritirarlo mezzora dopo senza alcun altro intervento, nonostante la paziente non sia in grado di mangiare autonomamente.
Avendo difficoltà a “svegliare” la suocera, mia moglie si rivolge al personale sanitario che le precisa “É molto soporosa, facciamo fatica a darle da mangiare”.

All’ora della merenda l’infermiere di servizio propone uno yogurt, più nutriente del tè. Mia moglie gli precisa che deve essere stimolata a bere perché da sola non riesce [necessita di essere imboccata a causa di cecità e ictus] e riprende l’argomento flebo.
Il personale con cui ci interfacciamo quotidianamente sono gli Operatori Socio-Sanitari. Uno di loro, dopo avermi chiesto l’età di mia mamma, afferma: « A me fanno pena quando sono giovani, 60 o 63 anni, come il mio vicino di casa. Alla loro età [riferendosi a mia madre], hanno già fatto la loro vita ».

Martedì 19 settembre osserviamo che il catetere rimasto ostruito non permette alla vescica di liberarsi con il rischio d’infezione. L’infermiere provvede ad un lavaggio del dispositivo per liberarla dai 200 ml di urina in vescica.

Ci informiamo per trasferirla altrove. Essendo necessaria una visita medica in loco, ci rivolgiamo all’Accettazione. Ci viene sgarbatamente risposto, nonostante fossimo già in sede, che “è necessario telefonare”.

A seguito dei nostri pressanti interessamenti, dopo l’intervento congiunto di direzione sanitaria e medico del reparto, su precisazione che la paziente verrà trasferita due giorni dopo presso una RSA, viene deciso di somministrarle una flebo fisiologica. La direttrice sanitaria, congedandosi, si rivolge a mia moglie [che aveva insistito per la ripresa delle flebo] con un “Grazie del suggerimento”.

Solo dopo il suo passaggio in RSA scopriremo dalla cartella clinica che alle sue dimissioni dall’ospedale i medici avevano raccomandato di mantenere le flebo e l’erogazione dello ossigeno.

Cose inspiegabilmente sospese al suo ingresso alla lungodegenza di Robilante.
Cateterizzata, allettata ed immobilizzata a letto h24 da una ventina di giorni, nelle condizioni descritte, mia mamma sembra catatonica e reagisce con estremo torpore agli stimoli che quotidianamente veniamo a fornirle. Mangia sempre di meno e con difficoltà. Decade.

Il penultimo giorno di permanenza alla Lungodegenza, la paziente manifesta difficoltà a respirare. La saturazione è relativamente buona.

Su nostra insistenza e grazie alla sensibilità dell’infermiere di servizio, la direttrice sanitaria si avvicina al letto, poi sentenzia: « Tanto sappiamo che è un paziente in fase terminale ».

Infine, a seguito delle nostre spiegazioni sulla sua storia clinica, acconsente: « Allora, visto che lo faceva già a casa, somministriamole un po’ di ossigeno, come è anche previsto [dal protocollo?] ».
Il 21 settembre riusciamo finalmente a trasferirla in una Residenza per Anziani dove è adeguatamente curata ed assistita.

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Gli Scomunicati è una testata giornalistica fondata nel 2006 dalla giornalista Emilia Urso Anfuso, totalmente autofinanziata. Non riceve proventi pubblici.

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