Di Claudio Rao
Dalle scritte sui muri a quelle sulla rete. Che fare?
Navigando su Internet e frequentando i Social network non ci sarà sfuggita, in particolare dopo la pandemia del 2020, la crescita esponenziale di quello che con un anglicismo potremmo definire hate speech: l’odio, l’aggressività online.
Non è solo un’impressione, a giudicare dai dati in possesso della Polizia postale e delle comunicazioni. Nel 2021 sono stati registrati circa 5.000 reati compiuti via web, tra i quali stalking¹, minacce e diffamazione online.
Una problematica che mi interpella come cittadino, come giornalista e come professionista dell’aiuto alla persona.
A Milano, presso l’Università cattolica del Sacro Cuore, è nato nel 2019 l’Osservatorio sull’odio online battezzato “Mediavox”. In questa community confluiscono movimenti e associazioni che hanno aderito al progetto promuovendo una “contro-narrazione”, una “narrazione del bene” atta a favorire e migliorare le opinioni e i comportamenti comunicativi in rete. Per ulteriori informazioni, rimandiamo direttamente al sito www.mediavox.network.
L’odio, com’è noto, può manifestarsi sotto forma d’insulti, calunnie, ingiurie, affermazioni diffamatorie e perfino minacce esplicite. Tutto ciò è sempre stato presente nei rapporti sociali (sic!) ma Internet, la Rete e i Social network hanno amplificato notevolmente il fenomeno, conferendogli una forza d’impatto mai conosciuta prima.
Criminalizzare la Rete, tuttavia, sarebbe a dir poco semplicistico. Dietro computer e smartphone, infatti, ci sono persone reali che si sentono “libere” e autorizzate a scrivere, spesso acriticamente, un po’ di tutto ed a sfogare la propria rabbia, impotenza e frustrazione. Anche attraverso condivisioni o semplici like,che li rendono de facto corresponsabili di discorsi d’odio, razzismo, antisemitismo (sempre più diffuso, ahimè!) e violenza verbale.
Non è un caso se la scorsa primavera il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, riunitosi a Torino, abbia adottato una “raccomandazione” rivolta a tutti gli Stati dell’UE in cui si definisce espressamente il “discorso d’odio” come « Ogni tipo di espressione che incita, promuove e diffonde o giustifica violenza, odio o discriminazione nei confronti di una persona o di un gruppo di persone o che li denigra in ragione di caratteristiche personali o status reali o attribuiti come razza, colore, lingua, religione, nazionalità, origine nazionale o etnica, età, disabilità, sesso, identità di genere e orientamento sessuale ».
Milena Santerini, docente di Pedagogia generale, vicepresidente della fondazione Memoriale della Shoah di Milano e coordinatrice nazionale per la lotta contro l’antisemitismo è l’autrice del saggio “La mente ostile”². Uno straordinario viaggio nell’universo dell’odio e le sue forme nella nostra storia.
Nel suo libro, la professoressa Santerini spiega che « L’aggressività, la rabbia e la violenza rientrano nelle dinamiche intrinseche, biologiche e psichiche degli esseri umani ». Questo ci porta a pensare che alcune caratteristiche della comunicazione digitale si prestino alla manifestazione di dinamiche interiori. L’immediatezza, il linguaggio iconico, le frasi ad alto impatto sulla nostra emotività, costituirebbero un terreno fertile, binario, per atteggiamenti manicheisti e discorsi particolarmente aggressivi. Se a ciò aggiungiamo il desiderio di farsi notare, essere popolari, avere un numero sempre crescente di followers, il gioco è fatto.
Così, com’è spesso il caso nella vita reale, anche nel virtuale emergerebbe chi alza i toni, chi urla più forte. Dulcis in fundo, gli algoritmi dei Social network che rilevano le nostre preferenze (i like, ma anche le nostre indagini sui motori di ricerca) ci proporranno messaggi e contenuti simili a quelli che abbiamo mostrato di apprezzare, facendoci entrare in punta di piedi in una spirale dalla quale non è sempre così facile uscire.
Quando navighiamo su Internet, l’impressione (falsa, ma diffusa) è quella di poter agire liberamente, senza controlli, anonimamente e questo tende a rimuovere le inibizioni.
« Il web vive di emotività – ricorda ancora Santerini – e le piattaforme dei social media si trovano quindi a gestire quello che possiamo chiamare “il mercato delle emozioni” ». Le ricerche da lei condotte proverebbero che tutto ciò che riveste un forte carattere emozionale ha forti probabilità di essere condiviso.
Qual è la nostra parte di responsabilità in tutto ciò? Siamo solo spettatori o rischiamo di trasformarci nostro malgrado in spettautori?
Stiamo parlando di atti gravi, come il cyberbullismo sul quale vale la pena di soffermarsi. « Il cyberbullismo, fenomeno definito anche cybermobbing e internet mobbing ossia “bullismo online” è il termine che indica le azioni offensive, di sistematica prevaricazione e sopruso, con il fine di molestare una persona per un lungo periodo tramite sms, chat o Facebook, e rendere così gli effetti devastanti per l’amplificazione che ne riceve il messaggio. È un insieme di comportamenti aggressivi di natura psicofisica e verbale, esercitati da una persona o un gruppo di persone nei confronti di altri soggetti. Le vittime possono subire conseguenze molto gravi come la perdita della fiducia in se stesse, oppure avere atteggiamenti di colpevolizzazione, stati d’ansia e depressione che possono aggravarsi fino a sfociare in manifestazioni di autolesionismo con conseguenze estreme come il suicidio »³.
Chi non ricorda la storia di Carolina che a Novara, nel 2013, dopo essere stata vittima in Rete dei suoi coetanei, si è tolta la vita a soli quattordici anni?! Fu lei a scrivere « le parole fanno più male delle botte ».
Il confine tra libertà di espressione e reato può essere molto sottile.
L’intimidazione online, con la pandemia, ha preso di mira anche medici e giornalisti che si sono aggiunti a sindaci, assessori, amministratori locali e donne.
Considerato il quadro estremamente complesso e l’inalienabile valore della libera circolazione delle idee, come possiamo intervenire per, almeno, limitare ed arginare questi fenomeni?
Una visione, probabilmente influenzata dalla mia formazione, mi porterebbe a previlegiare la “risposta educativa”. Senza rispolverare citazioni del grande Victor Hugo, sappiamo tutti che la scuola, come la famiglia e gli altri attori sociali deputati alla gioventù, svolgono un ruolo fondamentale per il presente e soprattutto il futuro della nostra umanità. Sono loro che formano il cittadino di domani. Educare al pensiero critico, alla ricerca delle informazioni, alla riflessione, al contraddittorio, all’analisi disincantata di dati, notizie, statistiche, nonchè al senso di responsabilità che ciascuno di noi ha in un contesto sociale, mi parrebbero ottime premesse alla formazione degli adulti di domani. Incoraggiando la comprensione, la compassione, l’empatia, la capacità a rendersi conto dell’eco che può avere ogni nostra esternazione. Trasmettendo il valore dell’interazione₄ e il peso della responsabilità₅. Soprattutto sui Social media dove l’odio e la discriminazione che si esprimono nel virtuale, possono mietere vittime nel mondo reale. Letteralmente.
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¹ Stalking «Comportamento molesto costituito da una sistematica violazione della libertà personale. Insieme di atti, di fatti, di situazioni persecutorie con cui una persona affligge un’altra. Il molestatore assillante o stalker, segue la propria vittima generandole stati d’ansia e di paura, alterando il clima nella sua quotidianità. In Italia le condotte tipiche dello stalking, con il D.L. 23 febbraio 2009, n.11, configurano il reato di “atti persecutori”» (dal Dizionario di Pedagogia Clinica).
² M. Santerini, La mente ostile. Forme dell’odio contemporaneo, Raffaello Cortina editore, Milano, 2021.
³ G. Pesci e M. Mani, Dizionario di Pedagogia Clinica, Armando editore, Roma, 2022.
₄ Interazione « Processo che si verifica quando un certo numero di persone comunicano fra di loro e ogni azione dell’una stimola reazioni e riadattamenti dell’altra. Le attività degli uni e degli altri diventano interdipendenti e si influenzano reciprocamente attraverso cambiamenti di pensieri, sentimenti e reazioni» (dal Dizionario di Pedagogia Clinica).
₅ Responsabilità « […] Per responsabilità si intende perciò l’impegno di rispondere a qualcuno o a se stessi, delle proprie scelte, delle proprie azioni o del proprio operato e delle conseguenze che ne derivano […] » (dal Dizionario di Pedagogia Clinica).
***Foto di copertina: da Associazione Carta di Roma
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