Rubrica settimanale a cura del dottor Claudio Rao
La vita sociale sembra fatta più di “apparire” che di “essere”. Indossare la maschera della gentilezza o della professionalità è spesso indispensabile: nel lavoro come nei rapporti sociali. La necessità di “fare buona impressione” può, però, diventare una prigione che impedisce la spontaneità e crea disagio e malessere, come nel caso di Jean-Paul, un cinquantenne approdato nel nostro studio associato una quindicina d’anni fa.
« Lo ricordo come se fosse ieri. Era un lunedì mattina, pioveva ed avevo un nodo allo stomaco mentre aspettavo il taxi per l’aeroporto. Mi sembrava di non essere completamente presente a me stesso. In aereo continuavo a verificare di non aver dimenticato nulla. Mi inquietavo per la mia mancanza di dinamismo fronte a un contratto che ci avrebbe aperto nuovi mercati. L’unico desiderio che avevo, era quello di rientrare! Il viaggio fu interminabile.
Allora, per ingannare il tempo, mi sono divertito ad osservare gli altri passeggeri e ad immaginare la ragione di quel loro spostamento. Quali potessero essere i loro interessi, le loro passioni, i loro desiderî. Ero così concentrato su quella sorta di… “proiezione, introspezione”? – come la chiamerebbe lei, dottore? – che quando l’hostess mi chiese cosa volessi, le risposi: “Io proprio non saprei”! Da qualche tempo mi sento diverso, cambiato. Ho sempre voluto riuscire negli affari, ma ora sento che mi manca qualcosa di fondamentale. Arrivato nell’ufficio del cliente, camminai avanti e indietro pensando e ripensando al discorso che mi ero preparato. Poi, casualmente, vidi dalla finestra una donna che confezionava delle ceste di vimini. La sua lentezza e la semplicità dei suoi gesti contrastavano col mio nervosismo. Improvvisamente mi tornò in mente la mia passione giovanile: confezionare degli oggetti artigianali! E se, cammin facendo, mi fossi semplicemente dimenticato di me stesso? ».
Certe persone hanno difficoltà a vivere il presente perché sono troppo legate al proprio passato od eccessivamente proiettate verso il futuro. Per questo è necessario instaurare un rapporto di autenticità interiore, eliminando la tirannia dell’apparenza.
Il sociologo canadese Ervin Goffmann (1922-1982), nel suo libro « La vita quotidiana come rappresentazione » (Il Mulino, 1969), usa la metafora del teatro per indagare l’importanza dell’azione umana. In quest’opera, sostiene che noi recitiamo diversi ruoli. Di fronte agli altri elaboriamo un’immagine pubblica in modo da suscitare una determinata impressione. Così, assorbiti dal ruolo che recitiamo per gli altri, ci dimentichiamo di noi stessi! D’altronde, come sarebbe possibile cogliere l’istante che ci è dato di vivere in quel determinato momento se siamo totalmente coinvolti nel ruolo che ci siamo assegnati?
Il timore di “fare brutta figura”, di avere un comportamento inadeguato (e qui forse dovremmo riflettere sul nostro sistema educativo), finisce per dominare ed annientare il nostro desiderio di gustare il presente. Invece di apprezzare ciò che siamo, finiamo per prestare unicamente attenzione a ciò che sembriamo!
Principio di piacere e principio di realtà sarebbero destinati a confliggere sine die? Certo che no! Ma il cantiere è titanico.
Vivere pienamente il presente, significa cogliere la sfida di essere se stessi, accettando e godendo con serena spontaneità i momenti che la vita ci offre. Saper valorizzare i piccoli piaceri quotidiani, senza darli per scontati. Un allenamento psicologico e mentale che ci porterà a un’attenzione più precisa e puntuale al presente, all’intensità dell’ “Hic et nunc”, del qui ed ora.
Se, come Jean-Paul, percepiamo di aver perso l’aderenza a ciò che sentiamo di essere, è tempo di reagire. Il che non significa isolarsi come un anacoreta, ma ritrovare se stessi per ri-proporsi agli altri. Una persona capace di sentirsi in armonia con se stessa è oltremodo più incisiva e presente socialmente e professionalmente. Ri-scoprire la propria natura, la nostra identità celata, ha un potere estremamente liberatorio e dinamico, capace di mobilitare abilità sopite e di risvegliare potenzialità sorprendenti.
Marie-Laure Cuzacq nel suo libro « L’Estime de soi – apprendre à s’aimer pour mieux vivre » (L’autostima – Imparare ad amarsi per vivere meglio) suggerisce l’idea che l’autocoscienza conduce all’accettazione di sé. « Molte persone avanzano alla cieca nella vita – osserva¹. Se chiedete loro “Chi sei?” non sapranno rispondervi o lo faranno parlando del loro mestiere, dei proprî figli o di quanto guadagnano ». Per sapere davvero chi siamo e quanto valiamo, Cuzacq ci raccomanda di interrogarci sulle nostre qualità, i nostri limiti, le nostre capacità, i nostri desideri nascosti, le nostre convinzioni.
Dobbiamo riuscire a crearci un’idea di noi stessi indipendente, libera, non soggetta a convenienze sociali o ai giudizi altrui. Tutta nostra, insomma e, per questo, autentica.
Così, potremo procedere nella vita connessi con noi stessi, con i nostri desiderî e i nostri valori; sentendoci sereni nelle nostre scelte e coscienti dei nostri pregi e dei nostri difetti.
Da una cosa Marie-Laure Cuzacq ci mette in guardia: il rischio che la nostra autostima dipenda unicamente dalla mera valutazione delle nostre competenze!
¹Marie-Laure Cuzacq, L’Estime de soi – apprendre à s’aimer pour mieux vivre, Éditions ESI, 2010, pag. 127
***Immagine di copertina fornita dall’autore
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