Beviamoci Sud a Roma – un evento di due giorni per raccontare le aziende vinicole del Sud

Beviamoci Sud a Roma – un evento di due giorni per raccontare le aziende vinicole del Sud

Reportage a cura della giornalista Susanna Schivardi con la collaborazione del sommelier Massimo Casali

A Roma, il 14 e 15 maggio una ricca sfilata di aziende vitivinicole per l’evento Beviamoci Sud a Roma, organizzato dall’Associazione Riserva Grande con Andrea Petrini di Paths of Wine e Luciano Pignataro, noto giornalista e gastronomo italiano. Non dimentichiamo la valida collaborazione dell’ufficio stampa Saula Giusto.

Produttori del Sud d’Italia direttamente ai banchi per presentare i loro vini di punta, in un bel fine settimana di affluenza vivace, tra winelover, neofiti, giovani curiosi e specializzati del settore. La primavera dall’aria già tenacemente estiva, un caldo che non ha frenato gli slanci e una location eccezionale, circondata dal verde della villa e da una bella piscina con spazi esterni che hanno contribuito al relax e alla gioia dei presenti.

Per la rubrica Sullastradadelvino abbiamo deciso di concentrarci su poche aziende che ci hanno dedicato tempo e attenzione, raccontando le storie, che come sempre accade nel mondo del vino, risultano appassionanti e ricche di tradizione.

Partiamo con un banco di assaggio che ci attrae per le etichette e il simbolo dell’azienda, una bella volpe che abbiamo già incontrato una volta in occasione di un’intervista ad un’azienda del Lazio. Incontriamo Eleonora Pensabene Perez, titolare dell’azienda Raimondo Vini, dal nome del nonno, e che ad Affile produce il Cesanese autoctono della zona. La storia è lunga e per chi non la conoscesse, ricordiamo che il vitigno è stato per troppo tempo dimenticato ma poi riscoperto e virtuosamente riportato in auge con la Doc nel 2003, il suo nome è relativo alla lunga tradizione che lo vuole originario da quei terreni “dagli alberi tagliati (caesi)”, dove un tempo c’erano rigogliosi boschi e poi hanno preso il loro posto i vigneti.

Seconda ipotesi vuole il Cesanese importato da un Monaco presso il Monastero di Santa Scolastica a Subiaco. Come ci racconta Eleonora “i boschi che circondano l’azienda, un tempo ridotti, adesso sono rigogliosi e contribuiscono ad un ecosistema virtuoso per le vigne”. Qui siamo a 550 mt slm, schiavi di una natura aspra e indomita, dove Eleonora ha dovuto combattere per anni prima di trovare un compromesso e fare dei vini di qualità.

Coltivazione “eroica”, pertanto quasi tutta condotta a mano, su un terroir fatto di uno strato di tufo e argilla ricoperto da una sabbia finissima esposta oggi dentro un barattolo. “Segnale – ci spiega la titolare – che un tempo qui scorreva un fiume come del resto tutta la zona è ancora oggi riccamente irrigata da vari corsi d’acqua naturali”. Il Cesanese di Affile che qui si produce è di un’eleganza spaventosa, un unicum nel suo genere, diritto e verticale, grazie a questo fox terroir, con cui Eleonora ha finito per entrare in simbiosi.

Ci concediamo subito un bicchiere di rosato, il Cybelle, dal nome portoghese della nonna del marito, una vinificazione in bianco per un prodotto adatto alla ristorazione, fresco e minerale da abbinare ad una golosa pizza margherita con tanta bufala. Passiamo quindi al Nemora, dal latino per “bosco”, e qui siamo con una bella Doc 2018, un vino elegante dai sentori classici di ribes, frutta rossa piccola non matura, un’intrusione di arancia sanguinella, al naso fresco e alla gustativa promette longevità. Da abbinare anche a piatti di tradizione romanesca come una buona amatriciana.

L’evoluzione del Cesanese si propone con la Riserva, Terrae Vulpis, frutto di una raccolta delle uve migliori a piena maturazione. Interessante passaggio in botti di rovere francese da 550 lt, per almeno 12 mesi, che Eleonora fa uscire solo “se si arriva alla qualità desiderata, in un’attesa in bottiglia dai 12 ai 14 mesi, non cedo alla tentazione di far uscire il vino se non sono soddisfatta”. Al naso una vivace mentuccia, che lascia il passo a eucalipto e poi mora e frutti scuri. Il ventaglio si allarga al balsamico avvolgente. Vino strutturato, di corpo e dalla profondità interessante.

Tra i banchi di assaggio incontriamo Laurent Bernard de la Gatinais, presidente di Assovini Sicilia (intervista al link https://www.youtube.com/watch?v=SCVmn-cDM3I ), e titolare di Rapitalà, azienda notissima del palermitano, nata grazie alle intuizioni di Hugues Bernard Conte de la Gatinais, il quale nel 1968 sposa Gigi Guarrasi, e con lei inizia questo viaggio nella riscoperta dell’autoctono e nell’impianto dei maggiori vitigni francesi. Il figlio Laurent oggi persegue questo disegno, riproponendo l’azienda in un palcoscenico di rinnovamento che interessa l’intera isola. La tenuta di 225 ettari declina da Camporeale verso Alcamo, dai 300 ai 660 mtl su un terreno misto di argilla e sabbia. Il nome che deriva dall’arabo Rabidh-Allah fiume di Allah, sta a significare una presenza antica di coltivatori che già allevavano vigneti su questa terra oggi disegnata dai filari colorati d’oro da un sole acceso e virulento. La gentile sommelier Ais ci propone di iniziare con un vitigno autoctono, Grillo in purezza, 2021,  giallo paglierino, al naso una spiccata mineralità, che ritorna alla gustativa con un impatto fresco e intenso che ricorda tutta la potenza dell’isola, Il Viviri è un vino esatto e deciso.

Il Catarratto 2021, Vigna Casalj, si propone con tutte le sue caratteristiche, al naso fiori scuri, sempre molto minerale, in bocca ci regala un sentore erbaceo, verticale e fresco. Bello pensare “ai vini siciliani come gli uomini originari dell’isola, molto chiusi all’inizio e poi si aprono col tempo”, così al bicchiere a qualche minuto dalla mescita, questo vino comincia a definirsi con eleganza. Il terzo che beviamo è uno Chardonnay 2020, con affinamento in barrique per un anno. Il giallo è pertanto dorato, in bocca tutta la vaniglia del legno, un vino che dovrebbe attendere per esprimere tutte le sue potenzialità.

Da Palermo a Catania ci separano un paio di banchi di assaggio, perché arriviamo proprio a sud-est dell’Etna, precisamente a Milo, dove una parte del vulcano franando ha dato vita ad una stratificazione straordinaria, sferzata da venti che da sud si incrociano con quelli del nord, per definire un microclima della zona molto più piovoso di tutta l’area e della Sicilia intera. Per questo la mineralità dei vini dell’azienda Barone di Villagrande non passa inosservata. Ci troviamo almeno a 700 mt sul livello del mare, unica zona dell’Etna dove si producono vini Doc Superiore.

Siamo con il responsabile commerciale, Fabio Torrisi, che ci presenta con puntualità le bottiglie che andiamo ad assaggiare. Le etichette di un’artista siciliana ci attirano per la loro modernità – immagini acquarellate con i colori della terra, delicati tratti fluidi molto placidi – per quella che a ben vedere è un’azienda che risale al 1727, condotta da ben dieci generazioni ed oggi nelle mani di Marco Nicolosi Asmundo, enologo talentuoso dall’ingegno giovanile e audace, che vuole sposare tradizione e innovazione.

Nel bicchiere abbiamo un ottimo Carricante al 90% e un 10% di autoctono, Etna Bianco Doc Superiore 2020, che troviamo espressivo del terroir, e finemente elegante. Il secondo che apriamo è il Carricante che fa 12 mesi in barrique di rovere francese e acacia siciliana. Ci sono voluti nove anni di sperimentazione per arrivare a questo risultato, che nel giro di poco vedrà nella produzione solo acacia siciliana, il vero supporto per far esplodere i sentori dei vini di questa terra.

L’acacia non invade e infatti qui abbiamo un vero figlio della Sicilia più autentica, da abbinare perfettamente a pesce, frutti di mare, per una bocca fresca e pulita, su una scia di frutti gialli maturi, dando il passo ad una vaga aromaticità. La mineralità onnipresente. Ci concediamo infine un Etna Rosso 2019, Nerello Mascalese all’80% blendato con Nerello Cappuccio e Nerello Mantellato, che si riposano per 12 mesi in botti di castagno dei boschi della tenuta, mentre il quarto vino, un altro Etna rosso con lo stesso uvaggio, fa 24 mesi di riposo in botte e risulta corposo, molto morbido, persuasivo, dalle note erbacee e balsamicità sul finale.

All’interno della grande sala ci imbattiamo in un estro fuori dal coro, Raffaele Troisi titolare dell’azienda Traerte Vadiaperti dell’Irpinia, località Montefredane. Un discorso a parte merita questo talento del Fiano e del Greco, ma che dire della Coda di Volpe, vitigno su cui nessuno mai avrebbe puntato! E invece lui l’ha fatto, e anche egregiamente. Raffaele, figlio di Antonio Troisi, fonda Traerte riprendendo in mano l’azienda di famiglia già nota come Vadiaperti, e il nome che significa “tra strade di montagna” racconta l’ambiente e la natura dove ci troviamo, un’Irpinia aspra e generosa. Zona montuosa e collinare, a ridosso del mar di Vietri ma anche attaccata all’Appennino, dove i venti di terra e di mare si incontrano, generando un microclima unico nel suo genere. Il suolo prevalentemente vulcanico, che prende in parte la sua ricchezza minerale dal suolo compatto di pietra pomice, regala vini vigorosi e diritti, da uve che crescono su altitudini anche fino a 700 mt dove si prevede una viticultura estrema.

Da queste premesse, andiamo a scoprire i tesori di Traerte, con Raffaele che alternandosi alla gioiosa presenza di Saula, ci versa nel calice un Coda di Volpe 2020, una vera perla in questo panorama vinicolo, perché il vitigno per tanto tempo poco apprezzato o comunque utilizzato per i tagli del Fiano e del Greco, grazie alla sua bassa acidità, regala in verità vini dalle sensazioni precise ed energiche, molto vivaci. Annata poderosa, come la definisce Raffaele, muscolare, davvero una potenza che ha portato alle uve sentori magnifici, dal giallo paglierino passiamo all’olfattiva di frutta e fiori con una sensazionale evoluzione al miele e alla camomilla. A vantaggio di una mineralità donata dalle vigne vecchie anche di settanta anni che ancora si trovano in azienda!  

Con la 2019 siamo in un’annata già più gentile ed elegante, Torama (dal dialetto per “Terreno”), abbiamo sempre una Coda di Volpe in purezza coltivata su terreni molto drenanti, calcareo-argillosi; alla visiva, riflessi dorati per una gustativa strutturata, di corpo, molto elegante, che rilascia sentori mentolati con finale di erba tagliata. Lo beviamo con allegria in questa giornata festosa.

Che dire del Fiano di Avellino di Montefredane, annata 2020, giallo paglierino dai riflessi verdognoli, si lascia accarezzare da aromi floreali di zagara, un ventaglio di frutta bianca, che lascia il passo a erba e incenso, con sipario su polvere da sparo. Molto equilibrato, l’armonia che si percepisce in un legame stretto tra produttore e terroir, dove il primo cede il passo per non tarpare le ali alla natura e lasciare che evolva laddove deve andare. 

Il Fiano 2019, Aipietri che sta per Vadiaperti, dalla veste molto elegante con un giallo paglierino tendente al verde salgemma, rimane intenso al naso, un fremito di frutta gialla ed erbe essiccate che regalano morbidezza, mineralità e grande freschezza. Vino molto elegante e strutturato. Vino che proviene da pendenze importanti, dove un microclima perfetto si alterna alla mano dell’uomo che con coerenza stilistica, fuori da mode del momento, decide di assecondare la natura dei terreni, che qui si esprimono con prodotti estremamente verticali, muscolari e virili, con sentori esatti e decisi.

Di altro genere ma non meno interessanti, i vini di Cantine Benvenuto di Francavilla Angitola, dove dal 2002 esiste questa realtà vinicola condotta da Giovanni Celeste, che riprendendo i vecchi vigneti del nonno, produce Zibibbo. Vitigno dalle alterne vicende e che dal 2013 è stato riabilitato alla vinificazione, dopo essere stato declassato a semplice vino da tavola, oggi ci viene proposto in tante declinazioni.

Terreni con ottime esposizioni, alle spalle protetti dal Parco delle Serre e di fronte sorride alla Costa degli Dei e costeggiato dal fiume Angitola. Zone dalla fiera tradizione vinicola e che oggi ci accompagnano con i vini che andiamo ad assaggiare. Il Benvenuto, Zibibbo in purezza 2021, ottimo come aperitivo, da uve a 350 mt slm., dove le brezze apportano un naso floreale ma anche tanta mineralità, grazie anche ai terreni vulcanici dati dalla presenza di un ex vulcano ora sommerso, il Marsili.

Arriviamo con grande curiosità al Benvenuto Orange, non filtrato, da un’idea di un importatore francese, e che qui si esprime con eleganza, in abbinamento perfetto con pesce crudo. Coltivazioni a regime biologico che interessano lo Zibibbo di Pizzo presidio slow food, estrema attenzione ai capricci del clima e almeno 40 giorni di macerazione, per questo vino intenso al naso, in bocca minerale che sfocia in agrumi   come pompelmo rosa per ingentilirsi col melograno, punte di zagara e anice stellato.

Il Rosato, Celeste 2021, prodotto invece da uva calabrese, parente del Nero d’Avola, prevede una macerazione di 24 ore. All’olfattiva/gustativa ci immergiamo in un alveare di ribes, fragole di bosco, che accarezzano lampone, per poi aprirsi a violette e lavanda. Non ci sfugge la bellezza delle etichette, tutte studiate per ricordare i colori della terra calabra, il mare e il tramonto, coniugati in differenti nuances create apposta da un grafico talentuoso.

Per finire assaggiamo il Terra, di uve Greco Nero e Magliocco, autoctono, con etichetta rossa per ricordare la natura granitica del terreno. Vino molto giovane, propone alla gustativa ciliegia sotto spirito, mirto, le more, per rinvigorirsi in sentori di cuoio e pepe nero. Ancora un anno in bottiglia gioverebbe molto alla sua evoluzione.

Tra i banchi di Sicilia, ci imbattiamo in Antonio Di Mauro, titolare dell’omonima cantina, Azienda Agricola Antonio di Mauro, che ci accoglie con un bel banco allestito con frammenti di roccia scura, simbolo di un terroir vulcanico e quindi molto vicino all’Etna. Ci troviamo a 850 mt a Piedimonte Etneo, un vigneto di famiglia che però diventa azienda proprio con Antonio, impegnato tra vigna e cantina incessantemente.

Affascinato dalle fermentazioni spontanee e utilizzo di lieviti indigeni, Antonio non segue la linea dei vini naturali, perché ritiene essenziale in una buona vinificazione, l’aggiunta di solfiti nella misura desiderata, sempre molto al di sotto del consentito. Le sue bottiglie raccontano i sapori e i colori del Mediterraneo, come il rosa dei tramonti e il grigio/rame della terra, in una sfilata di etichette appositamente create dall’architetto Alessandra Grasso.  Iniziamo dal rosato 2021, chiamato Dusis, che in greco significa tramonto.

Da uve Nerello Mascalese, regala un notevole bouquet olfattivo che si svela con del glicine, accenni di frutta esotica, mango e banana, e una passerella veloce di note verdi, dal sedano alla rapa, con una certa rotondità data da una pesca giallona. In bocca lascia una bella acidità, vino di corpo, persistente con una sfumatura di ribes.

 Il Kephas , nome dal greco che vuol dire pietra, sempre Nerello Mascalese, vuole 15 giorni sulle bucce, non subisce chiarifiche o filtrazioni, all’olfattiva dimostra una certa complessità, tipica nota di frutta poco matura, una marasca e infine un gelso nero. La nota iodata tipica del mediterraneo si percepisce attraverso eucalipto e resina. Alla gustativa una buona morbidezza, i tannini risultano levigati e nel tempo possono evolversi. Il ritorno dei frutti apre le danze ad un finale fresco di radice di liquirizia.

Per terminare questo viaggio breve e intenso, torniamo sulla Costa degli Dei, per fare due chiacchiere con il titolare di Origine & Identità, azienda molto giovane scaturita dalla fervida creatività di Mario Alberto Romano. Diplomato presso l’Istituto Agrario, si prende questi quattro ettari a Brivadi, sulle colline di Capo Vaticano a 130 mt slm. Spinto da una filosofia di rispetto per la natura, vuole avvicinarsi alle fermentazioni naturali, prediligendo Zibibbo, Malvasia e Magliocco Canino. Quest’ultimo, autoctono tipico della costa del Vibonese, è un vitigno acidulo e fresco, un Pinot Nero della Calabria, potremmo definirlo.

Nel bicchiere abbiamo un Metodo Classico, dal colore rosa corallo leggero che, grazie al talento culinario del titolare, abbiniamo ad un primo piatto con base di aglio, olio e peperoncino, impiattato con battuto di gambero rosso e briciole di ‘nduja, come lo preparano al ristorante Donna Orsola di Capo Vaticano. Il 20 18 indicato sull’etichetta ricorda l’anno di nascita dell’azienda, che vede la sua alba proprio con le bollicine, una follia di Mario Alberto che non si lascia vincere dalle difficoltà e osa l’inosabile! Passiamo quindi al Metodo Classico da uve Zibibbo, prima produzione a livello regionale, con 12 mesi sui lieviti e senza solfiti aggiunti. Un perlage fine e in bocca intenso, da abbinare con piatti di pesce elaborati.

Proseguiamo con uno Zibibbo fermo, 30 ore di macerazione pre-fermentativa che permette di estrarre struttura e sentori. Il colore giallo acceso, intenso, dolce e ampio all’olfatto, al gusto ha un’ottima freschezza e buona mineralità, con un accenno amaro tipico del vitigno. A seguire il Centodì di uve Zibibbo si chiama così per i 100 giorni di macerazione, con delastage tecnico, che permette di estrarre meglio polifenoli e aromi fruttati, oltre che a dare maggior completezza alla struttura del vino. A seguire la follatura che va a creare una sorta di crema, con lavorazione a cisterna aperta, in cerca di un equilibrio costante tra acidità, aromaticità e ossidazione. Un macerato che al naso offre la sua espressione massima, e in bocca coerenza perfetta con olfattiva.

Foto e video originali di Susanna Schivardi – collaborazione di Massimo Casali per la rubrica Sullastradadelvino – canali social:

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Gli Scomunicati è una testata giornalistica fondata nel 2006 dalla giornalista Emilia Urso Anfuso, totalmente autofinanziata. Non riceve proventi pubblici.

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