Rubrica – Sulla Strada del vino: in viaggio con Nathalie Clarici, destinazione Terre di Marfisa

Rubrica – Sulla Strada del vino: in viaggio con Nathalie Clarici, destinazione Terre di Marfisa

Rubrica a cura di Susanna Schivardi, giornalista, e Massimo Casali, Sommelier

#Sullastradadelvino con Massimo e Susanna alla scoperta dell’alta Tuscia Viterbese con Nathalie Clarici, una delle titolari dell’azienda vitivinicola Terre di Marfisa.

LA STORIA

Azienda vitivinicola cullata tra dolci declivi collinari,  e circondati da forre tufacee tipiche della zona, ricche di corsi d’acqua che ne irrigano la terra. Un nettare per la coltivazione di olio e vino, come la famiglia Clarici ha genialmente intuito ormai anni fa, tentando questa impresa che oggi si chiama Terre di Marfisa.

Dal lontano 1938, quando i nonni paterni di Nathalie acquistarono a Farnese una tenuta, e non a caso il nome dell’azienda rende omaggio proprio a Marfisa la nonna della nostra ospite, ad oggi, i passi per conquistarsi questi 23 ettari di terra sono stati pochi ma fondamentali. Il casale di un tempo è stato teatro dell’infanzia e della prima giovinezza di Nathalie, dove condivideva con i cugini e il fratello momenti indimenticabili, feste continue e giochi spensierati segnati da un’immancabile armonia. Nel 2009, il padre di Nathalie, Bruno, ingegnere edile e grande imprenditore, non si è lasciato sfuggire la possibilità di acquistare il terreno proprio accanto a quello originario di famiglia, da quel momento si procede all’impresa e da lì è tutto un percorso in salita. Entrano nell’azienda il cugino Marco, architetto che si occupa di tutta la parte hospitality con agriturismo e le 12 camere oggi all’attivo, e il fratello Riccardo, ingegnere meccanico che invece cura la parte impiantistica.

Con genio e attenzione, nell’azienda sorgono gioielli tecnologici come il fotovoltaico per le serre, che produce energia rinnovabile per tutto il territorio circostante e per l’azienda stessa. Che cosa dire della grande prospettiva al futuro che il padre di Nathalie dimostra quando al momento dell’acquisto si ritrova ettari di cereali e decide di convertire una parte consistente a ulivo e vite. L’olio è il Canino monocultivar, che solo adesso ha una sua dignità, e nel 2013 la prima vendemmia porge il la per un serie di produzioni vinicole che ci mettono poco a salire sul podio dell’eccellenza laziale. Nathalie, oggi a tavola con noi, racconta con dovizia di particolari l’attaccamento ai nonni e a Marfisa, donna dal nome e dal temperamento non comuni, che vive ancora dentro di lei con vivida memoria. Le parole di Nathalie ricche di entusiasmo non si risparmiano sulla bellezza del territorio viterbese, dove un terroir miracoloso e la struttura tufacea fanno sì che i vini prodotti siano diretta espressione di una natura, dove l’uomo può solo intervenire al margine. 

Farnese, un gioiello tra le colline dell’alto Lazio, e un filo ininterrotto di storica tradizione, dove le origini etrusche e le vicende legate alla famiglia Farnese offrono un fianco perfetto a Nathalie per dare alle sue bottiglie nomi assolutamente originali. Appassionata di linguistica, si immerge in un improbabile studio dell’etrusco e tira fuori tutti nomi con la h, quella consonante che da sempre la accompagna e la tormenta nel suo nome di ascendenza francese.

Andiamole a conoscere nel dettaglio, iniziando proprio dalle etichette dove compare lo stemma araldico dei Farnese, l’unicorno, animale prediletto proprio da quella Giulia Farnese, sorella del futuro papa, e che fece tanto parlare di sé per le sue avventure impudiche e la sua condotta poco ragguardevole. Quindi perché proprio l’unicorno, simbolo di purezza e lealtà? Perché, signori, all’epoca i social erano gli affreschi e la nostra Giulia, per smentire chiacchiere disdicevoli sul suo conto, scelse proprio questo animale simbolo di castità per atteggiarsi a donna integerrima.

LA DEGUSTAZIONE

Per la degustazione partiamo dal rosato Anthaia, che in etrusco significa fiore, una bella partita 50 e 50 di Sangiovese e Syrah. Bellissimo il colore rosa cerasuolo, ammiccante ad una buccia di cipolla. Nathalie ci spiega che il colore lo riceve soltanto al momento della pigiatura, in quanto il mosto non rimane assolutamente a contatto con le bucce. La nostra prima sensazione è un profumo intenso dato da una bella frutta fresca, un pizzico di melagrana e punte soffici agrumate. In bocca un brivido che un rosato difficilmente ci concede perché lo avvertiamo intenso, consistente, ricco di un’ottima freschezza.

Buone la mineralità e la persistenza e servito alla temperatura adeguata lo abbinerei a un buon risotto alla pescatora o anche a un piatto di carne come spezzatino di vitella, elegante e garbato per un palato delicato.

La passione di Nathalie per l’etrusco e le sue declinazioni non si esaurisce e passiamo allo Zamathi, che significa oro, il Vermentino in purezza. Un vitigno che al di fuori delle sue classiche collocazioni sta dimostrando risultati straordinari. La scelta di impiantare il Vermentino è stata dettata dalla voglia di creare un vino esemplare. Nathalie e la sua brigata sono riusciti a far esprimere questo vitigno con declinazioni eccellenti.  Si potrebbe definire brillante di un bel giallo paglierino, con unghia verdolina, al naso subito si affacciano la mineralità e freschezza incontrastate, a seguire percepiamo frutta a polpa bianca e fiori freschi, anche una leggera presenza di erbe aromatiche che donano un tocco di eleganza. In bocca avvertiamo subito la mineralità e la freschezza del Vermentino dotato di un buon corpo e una buona sapidità. La frutta bianca non manca ma la padrona di casa è la freschezza che lo rende piacevole ed equilibrato. I suoi 14 gradi alcolici sono perfettamente integrati frutto dell’ottimo lavoro in cantina. Da bere come aperitivo o anche sposato ad una buona tartare di tonno.

La passione per il Vermentino non si ferma qui e arriviamo allo Zamathi Iris, blend di Vermentino e incrocio Manzoni al 15%. Il Vermentino si sta dimostrando talentuoso nella zona e ha conquistato Nathalie a tal punto da sacrificare un ettaro di Sangiovese con un sovrainnesto, grazie all’apporto tecnico di una nota azienda di Alba. Con lo Zamathi Iris siamo al cospetto di un vero gioiello dell’azienda. Il mix con il Manzoni, vitigno trevigiano, è stata un’ottima scelta per assicurare corpo e una certa aromaticità che vanno a strutturare il Vermentino. Frutta leggermente più matura del precedente legata agli aromi che lo rendono molto intenso. In bocca abbiamo un’ottima consistenza con mineralità sempre presente e una sapidità che accompagna come in un valzer, un sorso dopo l’altro. Quasi cremoso in bocca, lo definirei pronto, perfettamente equilibrato e di ottima qualità. Perché non abbinarlo a piatti di pesce leggermente robusti come una zuppa di pesce o un pescato al guazzetto. Sicuramente una terrazza sul mare o una veranda in aperta campagna ne sarebbero cornice perfetta.

Sempre vocabolario alla mano, Nathalie ci presenta il suo Tesham che in etrusco significa cura. Un riferimento alla cura e alla dedizione che questa azienda riserva alla sua produzione. Tesham ha una storia travagliata, perché inizialmente rientrava nella Doc Tuscia. Ma per aver esplicitato sul retro dell’etichetta che l’azienda, come dice il nome, ripone estrema cura nella coltivazione delle uve, si è vista arrivare una multa per uso di termine laudativo. La burocrazia non ferma la qualità eccellente di questo vino, Lazio Sangiovese 2017, rigorosamente in purezza, dal bel colore rosso rubino con accenni granato, al naso ci arrivano ventate di prugna secca, giuggiola e ciliegia sotto spirito ma poi si adagia su tappeto olfattivo di rosmarino e salvia. Ma quale sorpresa quando arrivano anche lo smalto e addirittura un mallo di noce, a qualche minuto di distanza dal primo “assaggio” di naso. Regali questi dell’affinamento in barrique di rovere francese per una piccola parte della massa, mentre il resto riposa in acciaio. Il blend viene fatto solo successivamente proprio per dosare alla perfezione il legno e l’acciaio. Massimo percepisce, dopo qualche minuto, suggestioni di cacao e liquirizia, che ispessiscono un naso comunque fine. Al gusto apriamo il sipario ad una complessità invitante, morbidezza e buona freschezza, come da letteratura di sangiovese.

Una buona persistenza ci accompagna fino ad assaporarne il corpo e la struttura affatto timidi. Stasera ci siamo lasciati conquistare da un abbinamento classico con dadini di filetto conditi alle tre salse di tartufo e funghi, barolo e taleggio e noci.

Il quinto vino si chiama Athumi, Igt Lazio Rosso 2016, in etrusco la parola indica nobiltà, ed effettivamente potremmo dirlo un vino blasonato, blendato con 75% Sangiovese e 25% Petit Verdot, si concede venti mesi di affinamento in piccole botti di rovere francese di primo passaggio. Il nome Athumi viene affiancato da Calus – in etrusco Ottimo! – per differenziarlo dal primo Athumi, che risale alla vendemmia del 2013, quando la cantina in Farnese non era ancora pronta e Nathalie è costretta a conferire le uve presso la struttura di Capua Winery, che è fuori dal Lazio, relegandolo a semplice vino rosso da tavola! Bel rosso rubino legato ad un’unghia granata, all’olfattiva rivela la vivida frutta matura, ma anche qui immergiamo le narici in spezie fini, a tratti una grafite e addirittura un tamarindo. La bocca regala una trama tannica vellutata ma importante, il Petit Verdot è presente con una bella spalla speziata, e la natura vulcanica del terreno regala una persistenza piacevole, quasi sapida in chiusura. Ottima espressione della tradizione etrusca nel nome e della natura del terroir di Farnese, questo vino è un omaggio alla cura inossidabile della famiglia Clarici, che si prodiga per produrre vini di grande qualità e degni di rappresentare il Lazio nel panorama vitivinicolo nazionale.

Sesto e ultimo vino, La Cava, Igt Lazio Rosso 2018, dove si sposano miracolosamente due grandi vitigni, Syrah, impiantato nel 2014, e Petit Verdot, lasciati a riposare in legno, e che insieme esplodono in profumi e sentori ineguagliabili, cullati nella cava di tufo dove un microclima unico regala struttura e corpo. All’occhio subito un rubino intenso, quasi granato, per arrivare in bocca con pepe nero, cacao, amarena sciroppata e note balsamiche immancabili, che insieme alla mineralità chiudono in bellezza con finale lungo e persistente, promessa di un vino che può andare avanti nel tempo. Tipico dei grandi rossi presenta una buona struttura e grande qualità. La Cava è il frutto di una continua esplorazione nel blend, come ci racconta Nathalie, che spesso si ritrova con l’enologo a misurare con dedizione millimetrica la quantità esatta di una varietà o dell’altra, sperimentando e provando fino a raggiungere la perfezione. Sull’etichetta un omaggio alla sezione di cava dove si raccolgono le uve per produrlo.

Nathalie ci consiglia di abbinarlo con piatti di carne stufata o in umido, anche con formaggi stagionati al pepe verde, ma noi che siamo audaci andremmo a provarlo anche con un brasato al cioccolato fondente! 

La nostra cena si esaurisce con un saluto e un arrivederci in azienda, dove Nathalie e la sua famiglia si stanno ritagliando una nicchia importante nel panorama vinicolo laziale in crescita, con un bel brand di carattere.

Foto originali dell’azienda e di Susanna Schivardi – degustazione a cura di Massimo Casali

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