Di Claudio Rao
La situazione afghana pone nuovamente sotto i riflettori dei media il problema delle
Migrazioni
Riflessioni culturali e sociali su un fenomeno troppo ideologicizzato
E se la Bibbia ci offrisse delle allegorie capaci di farci riflettere sui problemi contemporanei? Dopo tutto, i testi sacri (di tutte le religioni) si vogliono eterni perchè provenienti da esseri che trascendono spazio e tempo. Dunque sempre attuali.
Relativamente al tema-problema dell’immigrazione, per esempio, mi sembra di ravvisare due episodi-chiave, entrambi contenuti nel libro della Genesi, ovvero dell’inizio della nostra civiltà ebraico-cristiana: l’omicidio di Abele e la torre di Babele.
Adamo ed Eva vennero cacciati dal Paradiso per aver mangiato il frutto della conoscenza; in altre parole – più laiche – per aver voluto sapere e capire piuttosto che credere e obbedire (ogni riferimento all’attuale pandemia è puramente casuale).
Caino e Abele sono i due figli della coppia, maledetta e cacciata dall’Eden. «Abele divenne pastore di greggi e Caino coltivatore della terra» (Gen. 4;2). Abele è dunque nomade, Caino sedentario.
Il primo è l’antenato dei migranti, il secondo quello dei nativi. Abele non ha una terra, ma va e viene in funzione delle sue greggi che cercano nutrimento nei terreni più fertili e generosi. Caino ha un territorio, lo abita e ne coltiva la terra; ha delle radici, per così dire.
Al dono di Caino (i frutti della terra), Dio preferirà quello di Abele (i suoi agnelli) e questo scatenerà l’invidia e la gelosia fraterna del primogenito che, nonostante le raccomandazioni divine, finirà con l’uccidere il proprio fratello.
Dio maledirà il primo omicida della storia (Gen. 4;11-12) condannandolo… all’esilio. Dunque al nomadismo!
Temendo di essere ucciso per ciò che ha compiuto, Caino viene rassicurato da Dio. Così finisce per sposarsi e procreare, mettendo fine al suo nomadismo e fondando una città che porterà il nome di suo figlio Enoc. La prima città della storia dell’umanità, secondo la Bibbia.
È a Caino dunque che dobbiamo l’origine dell’architettura e dell’urbanismo e, per estensione, della musica, della tessitura, dell’artigianato e dell’arte. È dalla discendenza di Caino, la nostra, che nasce la civiltà!
Abele resta un pastore che segue le sue greggi, piantando le tende a seconda delle esigenze del bestiame e spostandosi quando è necessario trovare altri pascoli.
Caino è l’uomo della Storia, Abele quello della Geografia.
Questa narrazione ci presenta l’allegoria della relazione tra il nomade e il sedentario,tra l’uomo di un luogo, di una terra, di un luogo determinato e l’uomo di uno spazio, di una distesa, di un territorio. Caino rende possibile la forza della civiltà, Abele perpetua il valore della tradizione.
L’archetipo nomade-sedentario ci riporta allo schema dualista. Da un lato i nomadi, gli esiliati, i senza terra, i vagabondi, gli emigrati, gli espatriati, i fuggitivi, i viaggiatori, i cosmopoliti… ma anche gli Ebrei (pensiamo alla storia dell’ebreo errante). Dall’altro i sedentari: i contadini, gli allevatori, i giardinieri, i rurali, i provinciali, i pescatori. Due mondi, due dimensioni che si guardano con sospetto e che paiono inconciliabili.
Sempre nel libro della Genesi, troviamo la narrazione della Torre di Babele. All’epoca, tutti gli uomini parlavano la stessa lingua e si misero in testa di costruire una torre alta fino al cielo. Questi uomini erano nomadi e provenivano da Oriente (che corrisponde all’est di Eden, dove Caino era stato esiliato).
Dio, per punire questo peccato d’orgoglio, confuse la loro lingua in modo che non potessero più capirsi, parlando tutti lingue diverse. Poi li disperse su tutta la superficie della terra (Gen. 11;8-9) inventando di fatto la diaspora, l’esilio, le migrazioni; dunque l’immigrato e l’emigrato.
Dalla prima allegoria (Caino e Abele) possiamo trarre una lettura interpretativa in chiave etologica: i sedentari “territorializzati” temono il nomade “deterritorializzato” che minaccia il loro territorio.
La seconda (la torre di Babele) sembra volerci significare i pericoli della concentrazione di nomadi sedentarizzati nelle città.
La migrazione produce indubitabilmente nella società accogliente uno stress identitario, in quanto è vissuta come un pericolo. Lo straniero, indipendentemente dal colore della pelle, dalla sua lingua, dalla sua nazionalità, dalla sua religione, dalle sue opinioni, dal suo passato, è percepito come una minaccia alla riedizione dell’identico, alla riproduzione sociale di ciò che è noto.
L’ultimo triennio di questi due millenni di civiltà ebraico-cristiana, sembra caratterizzarsi per uno stress identitario europeo.
Nel XIX° e nel XX° secolo Italiani, Spagnoli, Polacchi, Portoghesi, Greci, Danesi, Tedeschi, Inglesi e Russi animarono per così dire la migrazione intraeuropea. Un’immigrazione omogenea dal punto di vista culturale, avente come denominatore comune la matrice ebraico-cristiana. Cosa che, bene o male, consentì di restare «Uniti nella diversità», come recita il motto dell’Unione europea.
Da qualche decennio a questa parte, però, gli abitanti dello spazio geografico europeo vedono arrivare persone venute da altri orizzonti culturali che incarnano un’altra civiltà e non manifestano alcuna intenzione di modificarla per adeguarsi a quella del paese che le accoglie (come fecero quelle provenienti da altri paesi dello spazio europeo).
Ciò che può allarmare, alla luce di queste considerazioni è che questa “immigrazione di massa”, dunque incontrollabile, in una civiltà occidentale all’agonìa (spirituale, culturale e giuridica) introduca un’enorme quantità di persone che non intendono adottare i valori del continente che li accoglie; al contrario, sembra intendano imporle la loro cultura e i loro valori!
Non è il caso di tutti gli immigrati o “migranti” come si preferisce chiamarli oggi. Ci sono civiltà che non si edificano necessariamente sulle rovine delle altre, vivaddio!
Se l’Islam rivendica spesso il suo essere contrario alla cultura ebraico-cristiana, il continente asiatico, lo spazio culturale induista, buddista, shintoista e perfino animista non sembrano opporsi frontalmente a quello europeo nè volersi ergere a civiltà alternativa o di sostituzione alla nostra.
Lo sbarco di massa sul nostro continente di persone trattate come bestie è indegno della nostra cultura giuridica e umanistica, ma – temo – in linea con il progetto maastrichtiano: mai votato dal popolo italiano, ma tanto caro alle élites.
Dal punto di vista delle lobby europee, infatti, l’immigrazione incontrollata è una grande opportunità. Essa affievolisce il sentimento di appartenenza nazionale e fluidifica oltremodo il mercato del lavoro.
Se la Sinistra non avesse abbandonato le classi lavoratrici per adottare i migranti come nuovo proletariato, potrebbe insegnarcelo.
Qualsiasi forma d’immigrazione in un Paese con il tasso di disoccupazione superiore al 5% esercita una pressione al ribasso sui salari. Una pressione ancor più maggiore se l’immigrazione è illegale e i nuovi arrivanti lavorano in nero!
Senza contare le condizioni indegne di vita e di lavoro di questi ultimi, che si trovano a dover elemosinare il rispetto e la dignità a cui ogni essere umano dovrebbe avere diritto a prescindere.
Una realtà che ci interpella tutti, indiscriminatamente. Come individui e come cittadini.
Victor Segalen fu uno scrittore, etnografo, poeta, archeologo, teorico dell’arte e critico letterario francese. Grande viaggiatore e medico della marina (fonte Wikipedia). Secondo lui, una civiltà non muore per colpa di coloro che la distruggono, ma a causa della colpevole inerzia di chi lascia fare quelli che la disfano.
***Immagine di copertina: Sasin Tipchai da Pixabay
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