Editoriale del direttore responsabile Emilia Urso Anfuso
In queste ore l’umanità ha dovuto staccare l’attenzione dalla pandemia planetaria e portarla verso una vicenda terribile: dopo 20 anni gli USA lasciano l’Afghanistan lasciando la popolazione in uno stato che definire disperato è poca cosa. Trump aveva dichiarato nel 2020 la decisione di ritirare le truppe. D’altronde, l’accordo di Doha siglato il 29 Febbraio 2020 dal segretario di Stato USA, Mike Pompeo, e dal cofondatore dei Talebani, mullah Abdul Ghani Baradar, scarcerato per volere degli Stati Uniti nel 2018, (più avanti spiegherò le ragioni di questa scelta) metteva apparentemente fine alla guerra. Apparentemente, perché fin da subito fu chiaro che la pace, in Afghanistan, non sarebbe arrivata nemmeno stavolta. L’accordo, però, ha legittimato politicamente i talebani, oltre a costringere il ritiro delle truppe occidentali.
In cambio di cosa? Di rompere con al-Qaeda e di avviare un dialogo diplomatico con i politici afghani che conducesse, eventualmente, alla fine dei conflitti. Peccato che in questo accordo non siano stati inseriti alcuni punti fondamentali, come per esempio le misure che i talebani avrebbero dovuto intraprendere per “lanciare un chiaro segnale ad al-Qaeda e a tutte le organizzazioni terroristiche” e nessuno ha pensato di indicare attraverso quali verifiche si sarebbe poi analizzata la situazione reale. Insomma, un impegno senza capo né coda, che non presupponeva palesemente un risultato certo da parte degli integralisti islamici.
I talebani hanno invece ottenuto il massimo da questo accordo. Il ritiro delle truppe straniere ha indebolito la capacità difensiva dell’Afghanistan, e ora è molto più chiaro ciò che è riuscito a ordire Baradar: mettere in sospeso la situazione generale per tre anni, ottenere la libertà, fingere di negoziare per la pace per poi attaccare al momento opportuno. Bingo! Ottima strategia davvero…
Un paio di dati aiuteranno a comprendere l’inutilità dell’accordo siglato il 29 Febbraio del 2020: nello stesso anno sono stati registrati 3.050 i morti e 5.785 i feriti. Un nulla di fatto, altro che pace, e nessuno a prendere parola, o a opporsi alla palese presa per i fondelli da parte del movimento talebano. Certo, gli integralisti non hanno attaccato le truppe americane e nemmeno i grandi centri urbani, ma alla fine ciò che contava era uno stato di pace, la fine delle rappresaglie e la sconfitta del terrorismo.
Può un accordo simile essere preso in considerazione anche solo lontanamente? Perché Trump accettò di liberare il temibile Baradar? Per meri scopi politici ed elettorali. Pur di non rischiare di perdere le elezioni, che perse comunque, Trump disse al popolo americano che non avrebbe più inviato militari statunitensi a morire nelle cosiddette missioni di pace. E l’accordo fu siglato. Ma quell’accordo prevedeva la liberazione del temibile Baradar nel 2018, per consentirgli di trattare l’accordo.
Chi è costui? Per chi non segue la politica estera: classe 1968, nato del sud Uruzgan e cresciuto a Kandahar. Co-fondatore dei talebani insieme al mullah Mohammed Omar, che morì nel 2013. In massima sintesi: un fondamentalista islamico tra i fondatori del movimento dei talebani nel 1994. Personaggio chiave dell’accordo di Doha del 2020 nella veste di negoziatore. Arrestato nel 2010 in Pakistan dalle forze di sicurezza di Karachi, viene liberato nel 2018 e su richiesta degli USA.
Il motivo? Farlo partecipare ai negoziati per arrivare a un accordo di pace in Afghanistan. Pace che, in 20 anni e malgrado i ripetuti negoziati, non si è mai concretizzata se non per brevissimi periodi. Anche dopo l’accordo stretto nel 2020 non è cambiato granché.
È necessario anche rammentare come la coalizione occidentale, di cui l’Italia fa parte, non ha a sua volta trovato, in tanti anni, un vero accordo di coordinamento, e questo ha pesato molto sul fatto che non si sia mai giunti a una risoluzione dei conflitti.
Da un lato gli USA con la pretesa di “Esportare il modello di democrazia occidentale” dall’altro le nazioni europee convinte che la svolta sarebbe giunta attraverso il metodo del pacekeeping, azioni mirate al mantenimento dello stato di pace. Situazione ingovernabile in tutti i sensi, in un territorio ad altissimo rischio come quello afghano.
Ciò che accade oggi è frutto di strategia politica ed elettorale? In parte sì. Ma quello che dobbiamo chiederci tutti è: come si può liberare uno dei leader e fondatore del movimento dei talebani, pensando che questo potesse essere la soluzione ottimale per ottenere la pace? In un’intervista rilasciata nel 2009 al settimanale Newsweek, Baradar dichiarò tra le altre cose: “Gli afgani non si stancano mai di lottare; continueranno finché il Paese sarà liberato. Continueremo la jihad finché il nemico non sarà espulso dalla nostra terra”.
L’accordo di Doha del 2020 fa pensare a tante cose. Fa riflettere sulle strategie e le contro strategie, su ciò che davvero gli Stati Uniti volevano dopo il 2001 e che vogliono ancora adesso. Non la pace, ma l’egemonia politica mondiale e a ogni costo, anche a costo di tante vite umane, americane, afghane o di qualsiasi altra nazionalità. Un dubbio? Quasi una certezza, considerando i fatti.
E Biden? Ha deciso di seguire la linea di Trump, di defilarsi, di non assumersi alcuna responsabilità. Anche lui, al grido di “Io non manderò gli americani a morire”! dopo che gli USA hanno speso oltre 2.000 dollari in 20 anni per far pensare al mondo intero di operare per il bene del mondo, dopo migliaia di morti, tra militari e civili, pensa strategicamente alla sua immagine politica. Che al momento, però, di fronte all’orrore a cui stiamo già assistendo, e al pericolo che la Jihad, oltretutto, valichi i confini territoriali dei talebani per aggredire ogni essere umano infedele, facendoci precipitare in una nuova ondata di atti terroristici, non sta certo salendo nelle classifiche dei presidenti americani più apprezzati. Forse, nemmeno dai cittadini statunitensi che, per anni, hanno creduto davvero di aiutare un popolo a non morire così male.
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