Di Chiara Farigu
E lei dovrebbe difendere me? Dovrei essere io a difendere lei’. Fu questa la prima reazione del Giudice Borsellino quando vide per la prima volta Emanuela Loi, la giovanissima agente di polizia in servizio come membro della sua scorta.
Era preoccupato per quelle cinque vite, il Giudice. Non tanto per la sua.
Sapeva di essere già condannato. Era solo una questione di tempo.
Nessuno dei due riuscì a proteggere l’altro.
Cinquantasette giorni dopo la strage di Capaci, un’autobomba con circa 100 chili di tritolo esplode in via D’Amelio uccidendo lui, il Giudice Paolo Borsellino e cinque membri della scorta: Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina e la giovanissima Emanuela. Una delle prime donne assegnate ad una scorta in Italia e la prima agente donna della Polizia di Stato a perdere la vita in servizio.
Era il 19 luglio del 1992, esattamente 29 anni fa. Una ferita ancora aperta, tante le verità ancora sconosciute da portare a galla. Tanti i depistaggi e i silenzi di chi sa. La mafia, un cancro difficile da estirpare. ‘Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene’, era solito ribadire durante le interviste, ben consapevole che anche il silenzio, l’omertà, il girarsi dall’altra parte, uccide. Ancora più vigliaccamente.
Aveva appena 24 anni Emanuela. Sognava di diventare una maestra e di mettere su famiglia. Poi si fece tentare da un concorso per entrare in Polizia. Si preparò insieme a sua sorella ma solo lei superò tutte le prove col massimo dei voti. Aveva poco più di vent’anni quando dovette lasciate Sestu, cittadina a pochi chilometri da Cagliari dov’era nata e dove risiedeva con la famiglia, per trasferirsi a Trieste e accedere al corso di addestramento della durata di sei mesi.
Non pensava allora che quello sarebbe stato il primo (e l’ultimo) distacco dai suoi cari e dal suo fidanzato. Al termine del corso partì infatti per la nuova destinazione, Palermo. Era anni difficili quelli, gli attentati mafiosi si susseguivano con una violenza inaudita, le forze dell’ordine e della magistratura erano le vittime sacrificali.
Alla famiglia Loi che viveva con crescente preoccupazione la lontananza e la divisa che Emanuela con orgoglio rappresentava, rispondeva: ‘Finché non mi mettono con Borsellino, non corro nessun pericolo. Solo con lui mi possono ammazzare’.
Mai parole furono così profetiche. Il 17 luglio, dal rientro di un periodo di ferie trascorse nella sua Sardegna, fu assegnata proprio a Paolo Borsellino. Diventando una delle prime agenti donne assegnate ad una scorta in Italia.
Il suo compito e quello degli altri quattro agenti era proteggere il Giudice ‘un morto che cammina’, come lui stesso ebbe a definirsi. Era ben consapevole il magistrato di come fosse divenuto l’obiettivo numero 1 di Cosa Nostra e di come non ci fosse scorta capace di evitare una nuova e più cruenta strage dopo quella di Capaci.
A non sapere era solo il quando sarebbe successo. Quel 19 luglio alle ore 16,58, quando si reca in via D’Amelio per salutare l’anziana madre, com’era solito fare. E’ allora che esplode una Fiat 126 parcheggiata poco distante.
Al suo interno circa 100 chili di tritolo. Troppi per quelle vite di cui rimane solo il ricordo. E la rabbia per non avere avuto né lo Stato né altre istituzioni preposte a preservarle. Perché quella di via D’Amelio fu la più annunciata delle stragi. ‘Solo con Borsellino mi possono ammazzare’. Così è stato per Emanuela.
Così è stato per gli altri quattro della scorta.
‘Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri’. Oggi, nel giorno dell’anniversario, tante le commemorazioni per ricordare quelle vite sacrificate. Ancora senza nome i mandanti di quella strage.
La Giustizia e la Verità sono ancora lontane da venire
***Immagine di copertina: Sardegnalive
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