Gabriel: che due confessioni!

Gabriel: che due confessioni!

Di Anna Izzo

Premessa: tutto passato, tranquilli. Ogni rimasuglia dell’insana attrazione da me provata per il Dario Oliviero è scomparsa, evaporata, fuiuta alla velocità della luce: mi è bastato concepire che trattasi di un quasi cinquantenne vestito da adolescente dai tratti somatici troppo simili a quelli di Eva Grimaldi e di qualsiasi divetto che non accetta di invecchiare (è un privilegio, cari miei. E guai a mettere in discussione le lodi tessute alle rughe della mia amatissima Anna Magnani). Ciò che scriverò è frutto unicamente dalle mie impressioni. Mentre la pioggia cade incessante e mezza Italia piange gli ennesimi dissesti idrogeologici e le loro vittime, sebbene col cuore a pezzi vi offro una storia di repressioni, ripercussioni, somatizzazioni e confessioni. E che due (sostantivo maschile plurale che fa rima con)!

Gabriel Garko, che insiste a farsi chiamare così, nonostante la sua precisa volontà di prendere per mano il bambino che era, il piccolo Dario, da lui stesso consapevolmente represso, torna in TV a ribadire il concetto: sono gay, ma in certi ambienti non si può dire altrimenti addio carriera, e non ho mentito  a nessuno, se non a me stesso; evidentemente aver irrorato di furtive lacrime quella che, un tempo, veniva indicata come “la casa più spiata d’Italia” non era sufficiente (mi auguro che, dopo vent’anni di edizioni, VIP o non VIP, gli Italiani di qualsiasi età abbiano preso a dare una sbirciata anche altrove, smettendo di farsi pasti su pasti di voyeurismo).

La scelta non poteva essere delle migliori: “Verissimo”, condotto da una Silvia Toffanin ormai esperta nonostante la giovane età, sempre distaccata rispetto alle vicende della famiglia dell’ingombrante padre dei suoi figli e dannatamente in gamba (mi spiace, non si tratta di nepotismo o raccomandazioni: la Toffanin sa quello che fa e lo fa benissimo, meglio di tante “anchor woman” navigate alla Jane Fonda in “Quel mostro di suocera”). Pacata, drastica ma gentile e, dopo l’affaire Pamela Prati/Mark Caltagirone, con lo stomaco foderato da tutte le pellicce Annabella avanzate dai quiz di Mike Bongiorno.

In studio non vi è pubblico, causa misure di contenimento: solo la dott.ssa Toffanin e l’ospite, che avanza sicuro in perfetta tenuta “Castro street 2.0”, con giubbetto in pelle, jeans skinny e sneakers (“i scarp de tennis” dei “barbùn” secondo Enzo Jannacci, via). Il suo ingresso è accompagnato dall’indimenticabile “Come as you are” dei Nirvana, la quale non evoca solo la possibilità, finalmente, di fruire di moti a luogo ad libitum, senza più inibizioni o bambini dai sogni spezzati sulla coscienza, ma anche una presunta e mai confermata omosessualità del leader Kurt Cobain. Il primo commento di Dario? “Sembra di essere su un ring, come se dobbiamo menarci…”. Ovviamente il ring è solo nella sua testa, visto che la Toffanin ha il solito, dolcissimo approccio che riserva a ogni ospite, anche alla più convinta delle fidanzate e madri immaginarie.

Infilati gli occhiali tartarugati, in pendant con le mèches del ciuffo (adoro: li voglio entrambi), Dario Oliviero chiarisce: non ha mai mentito e le precedenti interviste da lui rilasciate non erano “bugiarde”, ma falsate da una maschera ormai diventata più ingombrante, come “uno scafandro” (termine che ricorrerà più volte, nei quasi trenta minuti di confessione: urticante. Abbiamo avuto un numero incalcolabile di persone, nel Mondo, in grado di respirare solo grazie a uno scafandro, a causa della Sars Cov 2, e per il bell’attore in crisi di personalità non esiste un termine diverso. Mah…). E inizia la sua narrazione liberatoria, assunta la posizione ben poco ingessata del panchinaro: schiena china a osservare che accade, avambracci adagiati sui quadricipiti e mani nodose che, con le loro movenze, dicono più di molte parole.

Innanzitutto, in tutti i ruoli da lui interpretati Gabriel Garko ha sempre cercato di mandare dei segnali, nonostante i dribbling e le storie d’amore che “il sistema” (?!) gli imponevano: compiaciuto, ringrazia una giornalista che, in un trafiletto, ha sottolineato il suo coraggio, nel fare outing con la consapevolezza di non poter più interpretare determinati ruoli. Stop. Fermi tutti. Su questo punto l’attore tornerà più e più volte, e temo non solo perché la questione gli stia a cuore. Innanzitutto la recitazione nei panni di specifici personaggi, se proprio vogliamo continuare a dare corda al vecchiume da sempre imperante nelle fiction made in Italy fin dai tempi degli sceneggiati RAI, sarebbero da affidarsi ad altri in quanto più giovani, non in quanto eterosessuali o “velati” (anche l’inarrivabile Loretta Goggi ebbe un bel po’ di problemi, illo tempore, una volta cresciuta: troppo grande per restare sulle ginocchia di Alberto Lupo e troppo poco formosa per “il grande salto”: soluzione? A lei il ruolo di John Fletcher ne La freccia nera. L’adolescenza ti ha resa androgina? Così sia…).  Adesso che il Dario attore, quindi Gabriel Garko, rivendica tale, imbarazzante e inspiegabile situazione, chi mai gli rifiuterebbe un redivivo Nito Valdi (“Il peccato e la vergogna”) o un azzimato Tonio Fortebracci (“La rabbia e l’orgoglio”)? Bravo… Bel colpo.

Seguendo un copione che va ben oltre il set, da un lato Garko aveva preso a frequentare le sue partner lavorative anche dal punto di vista sentimentale, ma per finta, a beneficio dei tabloid, iniziando a sentirsi vagamente un verme solo di fronte al faccino spaesato e a disagio di Adua Del Vesco (a cui ribadisce le proprie scuse: troppo tardi, mi sa, visto che ormai la bella Rosalinda vede omosessuali ovunque e si è fidanzata ufficialmente con un uomo almeno apparentemente insipido). Dall’altro, in famiglia, mamma e papà Oliviero sanno da mo’ di avere un figlio, Dario, bello, bellissimo, praticamente gay (e in analisi), da trattare come, appunto, un figlio, non come un personaggio.

Dario e il vero amore (sorsata d’acqua. Spero: se fosse stata grappa lo capirei, comunque): storielle poco importanti, con coetanei non in grado di comprendere il suo riserbo, poi lui, Riccardo. Una convivenza di undici anni durante i quali, in caso di amici in visita, il poveretto è costretto a fingere di far parte del novero, piombando in casa assieme alla massa, per poi salutare, andarsene, fare il giro del quartiere in automobile e tornare a casa (in caso di colf, San Riccardo andava a dormire nella camera degli ospiti, per dare un senso di normalità a una situazione che, per qualsiasi coppia omosessuale, era già normalissima). Vacanze? In gruppo, sempre. A cena fuori? Idem. Nonostante tutto, tale ex è rimasto in contatto con Dario ed è un suo buon amico (Santo e pure Martire: è ufficiale). Un certo Gabriele, dopo un paio di paparazzate, s’è dato (ma gli uomini hanno dalla loro la propensione a restare amici) e, lo dirà alla fine, adesso sta frequentando una persona, ma preferisce andarci coi piedi di piombo.

Di fronte al racconto di mistica fantascienza delle disavventure del povero Riccardo, ormai convinta di avere di fronte un avatar di Isaac Azimov e non un saltimbanco dal corpo statuario, Silvia Toffanin scivola quindi su una “venierata”, una piccola caduta di stile: ammette le sue remore, in passato, nel porre a Gabriel Garko domande sulle sue storie d’amore, per una sorta di alert sottopelle che fa percepire alle donne in gamba la presenza di un cazzaro (il famoso “segreto di Pulcinella”). Perché, o Gabriel, hai fatto questo a Dario? “Devi capire il sistema”, è la risposta: e lì davvero ho sperato che alla brava giornalista venisse passata la borraccia, in barba alle misure di contenimento, come Coppi a Bartali (o viceversa), e che contenesse una grappa barricata di quelle che stenderebbero un alpino taglia XXXL conformata.

La confessione prosegue con ulteriori recriminazioni su ambiti lavorativi preclusi ai gay e su come sia stato costretto a una vita nascosta e ritirata per sfuggire ai paparazzi. Quando Silvia Toffanin propone a Garko di rivedere il filmato del suo intervento al GF Vip, l’intervistato ha una pseudo reazione isterica, non avendola mai voluta rivedere (e beato te, tesoro: a noi l’hanno propinata ovunque…): acconsente, si predispone alla contrizione, a mani giunte, e via un altro sorso di Lexotan non diluito (ecco che era: adesso ne ho le prove). Durante tutto il revival, la conduttrice si dimostra al solito empatica e accorata, ma temo più nei confronti di Rosalinda (alias Adua del Vesco).

Cosa vuole, adesso, Dario Oliviero? Sente fortissima l’ovvia necessità di avere accanto persone che gli vogliano bene sinceramente, e nel novero fa rientrare anche Eva Grimaldi: l’ha amata, la ama ancora, la ama tantissimo, sono stati una coppia senza sesso e avrebbe voluto sposarla (il Signore sia ringraziato! Un matrimonio di copertura double face sarebbe stato troppo, per questi tristissimi anni Duemila!).

Segue ciò che, personalmente, mi provoca la medesima reazione della parola “pidocchio”, in tutte le sue accezioni: un autoelogio alla persona che è diventata (altro cicchetto calmante). Ci mancherebbe, se tutto ciò gli fa bene è libero di darsi alla vanagloria più sfrenata, ma Gabriel Garko è un attore, non un cardiochirurgo o un economista di fama mondiale… Casualmente, si arriva alla presentazione di un libro da lui stesso vergato (magari in una notte buia e tempestosa, come la lettera ciancicata di lacrime e moccio per la Del Vesco: se vi interessa, cercatelo. Io? Ho letto e riletto “La Carriola” di Pirandello e sui discrimini fra ciò che noi siamo, ciò che gli altri credono che si sia e sulle reazioni scomposte quando ci mostriamo diversi dal solito ne so il giusto). Seguendo il filone dei continui riferimenti all’omosessualità come limite per la sua professione (per i cantanti è diverso: non citare Tiziano Ferro a sproposito, o Toffanin vestita di nuovo come le bocche dei biancospini), si arriva a parlare di Ernesto, ragazzo gay malato terminale di AIDS interpretato MAGISTRALMENTE da Garko ne Le fate ignoranti di Ozpetek. Ebbene: anche in tale occasione si era sentito a disagio, sotto l’occhio della macchina da presa… Avendo lui stesso affermato di avere un atteggiamento costruttivo di fronte alle critiche, appurato che, con quel film e in quel ruolo, salto di qualità impensabile fu, avrei urlato di cuore un bel “recati a espletare i tuoi bisogni fisiologici”, perché sarebbe stata una critica sì feroce, ma su cui lavorare.

Da provetta giornalista, Silvia Toffanin si riserva le domande clou alla fine: un figlio? Gli piacerebbe tanto ma… Neuroni in tilt. Vorrei, non vorrei, ma se vuoi, per crescere un bambino ci vuole una famiglia, per concepire un bambino ci vuole una donna, per fare l’albero ci vuole il legno che al mercato mio padre comprò. Transeat, quindi.

Domandone finale: NE È VALSA LA PENA? Ebbene sì. Dopo venticinque anni sani di rapporti sentimentali usati a mo’ di make up total body (e che body) e di maschere indossate a scopo di lucro, dopo il coming out Dario è più paziente, più forte, felice nonostante i momenti disperati vissuti in passato (e poteva mancare il riferimento ai tentativi di suicidio, argomento delicatissimo? Gabriel Garko: non sei il ragazzino coi jeans rosa a causa di un lavaggio sbagliato il quale, a causa dei bulli “de borgata”, si è ucciso a nemmeno quindici anni: sei un uomo fatto e finito. Meglio soprassedere, ma ahimè la domanda cascava a fagiolo e la Toffanin non poteva esimersi…).

Per cortesia, perdonatemi se concludo usando il termine “intervista” e non “confessione”, ma avverto con chiarezza Sant’Agostino e Ippolito Nievo rivoltarsi nella tomba… Il sipario su Gabriel, “uomo nuovo” in ebraico, da ora e per sempre Dario, cala con una magistrale espressione facciale di Silvia Toffanin sul “De resilientia” improvvisato da Dario Oliviero (un “me cojoni!” perfetto, da standing ovation da parte dell’indimenticata Elena Fabrizi, con tanto di porzione di pollo ai peperoni in regalo): dicesi “resilienza” quell’impulso che, quando tocchi il fondo, ti dà la forza di puntare i piedi e spingere per riemergere.

Che dire: spero davvero che di tale vicenda non si parli più, poiché temo un altro fidanzato pronto ai blocchi di partenza, innanzitutto. E, se posso permettermi… Dario: sei stato e sei un attore rifinito e ne Le fate Ignoranti l’hai dimostrato. Basta temere di non essere più considerato per i ruoli da macho castigatore! Sai fare anche altro e, se proprio vogliamo continuare a dimostrarci ottusi in merito, in Italia, nessuno ti vieta di aprire una scuola di recitazione, investendo così gli introiti di ospitate TV e del libro: la tua immagine smagrita, vulnerabile e sofferente, sotto una pioggia infame come quella che ha distrutto gran parte dei territori a ridosso del confine Italo-Francese e in altre zone del Nord Italia, non si dimentica facilmente. Tranquillo e buona vita, Dario: non solo un gasometro ti stava a guardare, allora, ma tutti i cinefili estimatori dei film di Ferzan Ozpetek (e sono tanti).

P.S. Comunque, se qualche cineasta volesse proporti altri ruoli da sciupafemmine nonostante l’avanzare inesorabile del tempo, sebbene sia un’arancina coi piedi e abbia la glottide retroflessa a causa della sclerosi multipla, come partner femminile sono qui, pronta e disponibile. In più sono etero e felicemente sposata, quindi non corri eccessivi rischi. Nel frattempo, il bacio lanciato da te nel vuoto e destinato a Silvia Toffanin l’ho bello che afferrato. Anche se col filling alle labbra… Orrore!!

P.P.S. Ma ora che il “sistema” per te non esiste più… Ripensamenti no, eh? Vabbè.

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