A cura di Valerio Zafferani
Nel precedente articolo ci siamo focalizzati sulla struttura organizzativa aziendale, elemento necessario atto a comprendere la maturità concettuale dell’impresa per affrontare il processo di sviluppo sostenibile.
Una volta messo a punto questo passaggio, chi dirige l’assessment può proseguire la sua azione verticale indagando il purpose d’impresa con la proprietà e i vertici aziendali. Il purpose, o scopo, è il perché si fa ciò che si fa, la parte più intima della ragion d’essere di un’azienda. Per quanto vision e mission restino cardini necessari, anche se a livello comunicativo esterno non più così interessanti, ciò su cui bisogna concentrarsi è proprio il purpose.
La proprietà di un’azienda deve averlo ben chiaro e, se così non fosse, il ruolo del consulente della sostenibilità è quello di portarlo alla luce. Il purpose diventa così il ‘nord’ da seguire, quel faro che, soprattutto nei momenti difficili, aiuta a ricordare chi siamo e perché stiamo facendo impresa.
Una volta chiarito e sottoscritto il purpose, il processo di assessment va diretto all’analisi approfondita degli stakeholder.
Come già descritto nei precedenti articoli, gli stakeholder altro non sono che i portatori d’interesse di un’azienda. Ora, se queste figure fino a qualche anno fa erano limitate alle persone o partner economici a diretto contatto, oggi con il processo di sostenibilità strategica si è obbligati ad aumentare, e non di poco, la visone degli stessi. Più l’azienda, infatti, ha la capacità di ampliare la visione degli stakeholder in una sorta di cerchi concentrici che si susseguono, più si ha l’occasione concreta di costruire un ecosistema valido e profittevole.
Sembra paradossale ma se l’azienda, immaginiamo una micro o piccola impresa, non conoscesse questo termine, è un segnale che l’assessment deve fotografare con grande attenzione. Diciamo anche che la cultura manageriale d’impresa è cresciuta negli ultimi anni grazie anche alle condivisioni social, per cui è probabile che questo temine non sia sconosciuto. Una volta inquadrati gli stakeholder è bene comprendere se sia mai stato valutato il loro grado di soddisfazione. Superando banali questionari di gradimento, a volte fin troppo plastificati ed inutili, diventa necessario far comprendere all’ecosistema che si fa parte di una realtà economica complessa e, quindi, la si deve conoscere a fondo.
Se pensiamo ad una filiera produttiva che a valle ha il cliente consumer, è riduttivo per un operatore economico, parte di quella filiera, interessarsi solo dell’anello di congiunzione diretto senza avere contezza del grado di soddisfazione del cliente finale. Infatti, anche se il suo operato risulti perfetto per il cliente diretto in filiera, il grado di soddisfazione negativo del consumer, magari dato dall’operato di un’altra azienda, finirebbe per ricadere in termini negativi anche sull’impresa che ha ben operato.
Banalmente: se ho un servizio e-commerce e il mio prodotto risponde sotto tutti i punti di vista al gradimento del cliente e il corriere espresso lo consegna in ritardo rispetto al previsto, è inevitabile che il cliente finale esprima un giudizio negativo sull’esperienza di acquisto e si rivolga ad un altro player che, a parità di qualità prodotto e relativo prezzo, abbia un servizio logistico più performante.
Questo esempio ci fa ben comprendere l’importanza di mettere in relazione profonda gli stakeholder con l’impresa centrale. Non è un caso che Philp Kotler, padre del marketing sociale, abbia inserito nei ‘dieci peccati capitali d’impresa’ proprio il non essere in grado di valutare e monitorare in modo approfondito i propri stakeholder. Sottolineo inoltre che in un precedente articolo, presentando i rischi per l’impresa che oggigiorno non si allinea ai criteri di sostenibilità strategica, ho specificato che essa, pur non soggiacendo agli obblighi di legge per i criteri ESG, ne diviene obbligata di fatto se fa parte di una filiera produttiva che ha nel vertice un’azienda obbligata dalla normativa. Per questo l’analisi degli stakeholder diviene cruciale.
Elenchiamo ora quali sono gli stakeholder più comuni, a cui l’azienda deve fare riferimento suddividendoli in diretti ed indiretti, secondo l’accezione comune che comprende, però, anche una mia visione personale. Stakeholder diretti: dipendenti, fornitori di prodotto, fornitori di servizio, clienti B2B, banche, istituzioni. Stakeholder indiretti: mass-media, opinion leader/influencer, associazioni di categoria, sindacati, comunità locali.
E i clienti B2C o finali? Personalmente non li inserisco negli stakeholder diretti, anche se tecnicamente sarebbe corretto, per un discorso di cultura d’impresa più elevata. Infatti il cliente altro non è che il ‘vero’ datore di lavoro dell’azienda in quanto senza il cliente, il denaro non entra nelle casse e l’impresa non genera né profitto, né liquidità e, ça va sans dire, non può essere sostenibile.
Su questo punto, a chiosa dello scritto, ricordo un concetto tanto ben espresso da Sam Walton, patron di Wallmart, nota catena americana di supermercati dal famoso slogan ‘Everyday low price’ – ogni giorno il prezzo più basso. ‘Il cliente silenzioso è colui che ci dice che va tutto bene ma non torna più, porta i soldi da un concorrente e, di fatto, ci licenzia’. Nel prossimo articolo ci addentreremo nel questionario da dedicare agli stakeholder e la costruzione della matrice di materialità.
***Pubblichiamo su gentile concessione dell’autore – Articolo originale pubblicato qui:
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