La felicità sotto l’ombrellone

La felicità sotto l’ombrellone

Rubrica a cura del dottor Claudio Rao

Lasciamo il terreno delle scienze psicopedagogiche per avventurarci in riflessioni di ordine filosofico ed esistenziale. Più adatte a “letture sotto l’ombrellone”.

Per noi, uomini e donne del XXI° secolo, il “diritto” alla felicità sembra essersi trasformato in un “dovere”. Sembriamo insomma condannati alla ricerca della felicità, fino a colpevolizzarci se non la troviamo. Un paradosso che finirebbe per renderci infelici.

In base ai ricercatori la felicità è per il 50% genetica, almeno nelle attitudini e nelle predisposizioni al vedere la metà piena del bicchiere. E solo per il 10% legata alle condizioni esterne (economiche, socio-culturali, familiari). Esattamente il contrario di ciò’ che ci verrebbe da pensare! Il restante 40% dipenderebbe dalle nostre scelte, dal senso che diamo alla nostra vita, dagli incontri che facciamo, dalle nostre condizioni di salute.

Per essere felici sembra importante scoprire chi siamo e verso cosa siamo portati. In psicologia analitica si chiama “processo di individuazione” e « si articola in due operazioni: Differenziazione e Integrazione. »¹

Bypassando tutti i nostri condizionamenti educativi, sociali e culturali, chiediamoci se ci sentiamo veramente al nostro posto.Il filosofo Spinoza affermava che la felicità consiste nel realizzare la propria vera natura.

Molte delle persone che ho conosciuto nel mio percorso professionale, a quarant’anni realizzano di aver scelto il proprio mestiere, la propria compagna, di aver forgiato il loro destino in base alle aspettative genitoriali.

Sempre secondo Spinoza, esisterebbero due emozioni fondamentali: la tristezza e la gioia.

Nel momento in cui la crescita, l’evoluzione, la realizzazione del nostro essere si trova ostacolata, siamo nella tristezza. Quando invece cresciamo, miglioriamo, progrediamo, ci realizziamo nella conoscenza, nell’amore, nell’interazione sociale, sperimentiamo la gioia.

Se vogliamo vivere nella gioia è importante conoscerci meglio, disciplinare le nostre passioni, capire ciò che realmente desideriamo, ciò che ci ostacola e con cui non riusciamo a convivere; quali tipi di relazioni sono più adatte a noi, alla nostra natura; quali attività, lavori, scelte e concertazioni ci sono congeniali e quali no.

Riferendoci ai grandi principî religiosi che si fondano sulla filosofia, possiamo scoprire che per il Confucianesimo la felicità è incarnata dal saggio che ha molto vissuto; il vegliardo che ha molto lavorato su se stesso e che si avvia alla conclusione della propria vita; colui che ha trovato la saggezza. Nel Taoismo, al contrario, l’individuo più felice è il bambino, perché è un essere spontaneo, capace di meravigliarsi di tutto; il fanciullo è nella gioia, fiducioso nella vita; immagine di una fluidità esistenziale che viene portata ad esempio. E’ crescendo che conoscerebbe la paura, i divieti, i conflitti che altererebbero questo stato iniziale di felicità. Traslato nella cultura ebraico-cristiana, il richiamo al Vangelo di Gesù che cita i bambini ad esempio è pressoché immediato.

Il limite dell’adulto all’acquisizione della felicità sarebbe dato dalla sua esigenza di controllo, dal suo bisogno di sicurezza, dal timore di perdere ciò che ha acquisito con l’esperienza, le scelte professionali e familiari.

Il fatto di voler controllare ad ogni costo la vita, dominare le circostanze, porrebbe dunque un ostacolo o quantomeno un freno alla nostra felicità. Una vita che, sostiene il Buddismo, è in continuo movimento e mutamento. La base della felicità sarebbe accettarlo, senza voler programmare, razionalizzare, pianificare ogni cosa.   

Il segreto della felicità starebbe nell’aver fiducia nella vita; nella capacità di accoglierla e di accettare ciò che ci viene dato. Sforzandoci di mobilizzare le nostre energie e le nostre forze non tanto per contrariarla, quanto piuttosto per cercare ciò che una data difficoltà ci sta insegnando; per riorganizzarci, riorientarci, reinventarci.

Noi contemporanei sembriamo persi in una ricerca quasi ossessiva della felicità, dimenticando quello che i francofoni definirebbero come un semplice “lâcher-prise”.  

Sembra opportuno precisare che piacere e felicità non sono la stessa cosa. L’esperienza del piacere è comune a tutti noi che la viviamo quotidianamente: il piacere di nutrirsi, di riposarsi, di ascoltare la nostra musica preferita o di vedere un bel film. La semplice somma di questi piaceri, però, non equivale né conduce alla felicità.

Il filosofo Epicuro afferma che non tutti i piaceri sono positivi. Certi ci fanno addirittura del male. Non solo, ma troppi piaceri annientano il piacere! E’ dunque necessario selezionarli secondo i  nostri criterî. E moderarli. Ovvero, non vivere unicamente per soddisfarli.

La morale epicurea ci insegna a modulare la ricerca del piacere, prediligendo la qualità alla quantità. Ed è questo che ci accompagna  nella direzione della felicità. La ricerca di uno stato di piacere equilibrato e intelligente che si traduce in una ricerca di equilibrio e di armonia.

Un’altra sorpresa è che la vera felicità includerebbe anche una certa dose di generosità. Dare rende il donatore felice. Lo confermano le ricerche condotte dai sociologi: le persone più generose sarebbero statisticamente più felici degli altri! Coloro che, inversamente, hanno più difficoltà a donare, a condividere risulterebbero più infelici.

Ultima riflessione. Uno dei modi per sperimentare la felicità è quello di essere totalmente presenti e assorti nell’attività (qualsiasi attività) che stiamo compiendo. Coinvolgendo tutti i cinque sensi. Infatti i ricercatori, studiando il cervello umano, ci spiegano che quando siamo intensamente attenti e totalmente immersi a ciò che stiamo facendo, il nostro cervello secerne dopamina e serotonina, sostanze chimiche utilizzate in farmacologia per gli antidepressivi!

¹ U. Galimberti, Nuovo Dizionario di Psicologia Psichiatria Psicoanalisi Neuroscienze, Feltrinelli, 2021, pag. 969

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