Comunicazione ingannevole: il greenwashing

Comunicazione ingannevole: il greenwashing

Di Valerio Zafferani

Come annunciato nel precedente articolo ci occupiamo ora di greenwashing e dei rischi che comporta tale pratica.

Il greenwashing è un neologismo inglese carico di significato che sta guadagnando sempre più rilievo nel panorama d’impresa e dei mass-media che, con alta probabilità, nel prossimo decennio utilizzeranno questo termine per le inchieste spinose che riguarderanno gli operatori economici sul tema della sostenibilità strategica.

Consideriamo infatti che il 28 febbraio di quest’anno il Parlamento Europeo ha pubblicato la direttiva 2024/825 che riforma vecchie direttive e le adegua alla responsabilizzazione dei consumatori per la transizione ‘verde’ mediante il miglioramento della tutela delle pratiche sleali e dell’informazione.

Da dove nasce questa parola? Concettualmente il termine vuol dire ecologismo di facciata e trova origine nel whitewashing, ossia il passare una mano di vernice bianca su di un muro per coprirne le magagne. Ma siamo consci che, ad esempio, se un muro è coperto di muffa non sarà una mano di vernice a risolvere la situazione, contenendo temporaneamente il problema ma non lavorando sulla causa. Ecco, quindi, che questi termini indicano operazioni di facciata, o meglio strategie di comunicazioni ingannevoli, volte a mascherare con il concetto ‘green’ attività scomode, se attenzionate dall’opinione pubblica e, perché no, per ripulirsi la coscienza, evidentemente sporcatasi in attività che di nobile avevano ben poco.

Qui nasce però una specifica di estrema importanza perché possiamo trovarci di fronte ad un greenwashing consapevole, ed è un conto, o ad un greenwashing inconsapevole, ed è un altro conto. E mette in risalto la differenza che corre nel mondo giuridico tra il dolo e la colpa. L’inconsapevolezza, la colpa, comporta paradossalmente un rischio maggiore perché generato da ignoranza e senza contezza delle criticità che potrebbero arrecare all’azienda una tale azione. Mentre va da sé che un greenwashing consapevole, quindi con dolo, sarà gestito con maggiore attenzione dall’azienda per non essere scoperta e additata, anche se eticamente rappresenta un fatto disdicevole.

Esempio: una multinazionale che produce energia da fonti fossili dovrà cercare di mitigare il suo impatto ambientale per apparire di fronte agli stakeholder più ‘pulita’ possibile. Può quindi calcolare l’impatto ecologico in termini di CO2 prodotta e mettere a terra tattiche di contenimento, magari piantando alberi, per mettersi in linea con l’etica della propria attività. Ma un conto è riparare, un conto è prevenire. Per non fare greenwashing dovrebbe, quindi, concentrarsi sulla neutralità carbonica (Carbon Neutrality) che mira a ridurre le emissioni piuttosto che limitarsi a compensarle, diversamente sarebbe appunto una mano di vernice sul muro con la muffa.

Ma una multinazionale è ben conscia di queste dinamiche, diversamente non sarebbe un’azienda di tale grandezza. E dovrebbe considerare la neutralità carbonica come parte di un percorso strategico di lungo termine con l’obiettivo di raggiungere ’emissioni nette zero’ rispetto alle attività aziendali ed alla sua filiera – ossia il cosiddetto Net Zero (in accordo con Protocollo di Parigi del 2015, succeduto al ben noto Protocollo di Kyoto). Ricordiamoci che il mantra della sostenibilità è ridurre, mentre compensare è un accessorio, ça va sans dire.

Prendiamo ora lo stesso esempio e applichiamolo ad una piccola azienda di trasporti che, in buona fede, fa qualcosa per l’ambiente e le persone. L’imprenditore, quindi, decide di piantare alberi in compensazione della CO2 prodotta dai suoi mezzi e, certamente, non possiamo additarlo di malafede, semplicemente perché non è a conoscenza di tali dinamiche; cosi come, molto probabilmente, non lo sono i professionisti di cui si avvale.

Quindi saremmo in presenza di un greenwashing inconsapevole, che al netto delle dimensioni assolute di emissioni rispetto alla prima azienda, commetterebbe però il medesimo errore.

Qual è la soluzione in questo caso? Acquistare per i propri mezzi del carburante ad hoc potrebbe essere utile allo scopo della riduzione delle emissioni. E l’impresa potrebbe bilanciare l’inevitabile maggior costo con una gestione della comunicazione che miri a generare valore per la filiera produttiva e gli stakeholder specifici, come ad esempio le banche che avrebbero meno problemi a rinnovare degli affidamenti in precedenza concessi e magari con sconti sugli interessi passivi.

Ma perché le medie, piccole e micro imprese faticano in tali strategie e si limitano, ad esempio, a mettere una fogliolina verde sul proprio sito per apparire ‘green’? Non è un tema di ideologia o ambientalismo spiccio perché la nostra imprenditoria, geniale nell’ideare prodotti o servizi di alta qualità e spesso innovativi, pecca nella cultura della governance aziendale e tende a cadere in trappole volte a non comprendere la differenza tra un costo ed un investimento.

Tutte le operazioni che spesso nascondono un greenwashing inconsapevole, infatti, vengono gestite alla stregua di un fastidioso compito da assolvere. Nell’esempio della piccola azienda di trasporti, infatti, l’input, più che da strategie di visione dell’impresa, è plausibile arrivi dalla banca che, per far rispettare i criteri ESG dei suoi stakeholder/clienti, richiede azioni verso la sostenibilità.

In questo sistema che ha tutta l’idea d’essere un complicato ingranaggio, oltre al danno emergente, ciò che viene minata può essere la reputazione dell’azienda. E considerato che oggi la reputazione è la nuova moneta con cui si misura il successo di un’impresa, va da sé che porre attenzione al tema è sinonimo di intelligenza e lungimiranza.

Ecco, quindi, come la sostenibilità strategica rappresenta un investimento di medio-lungo periodo e fornisce all’impresa l’opportunità di modificare in modo innovativo la catena del valore. Nel prossimo articolo proseguiremo il nostro viaggio nei rischi della non sostenibilità: compliance normativa e filiere produttive.

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Gli Scomunicati è una testata giornalistica fondata nel 2006 dalla giornalista Emilia Urso Anfuso, totalmente autofinanziata. Non riceve proventi pubblici.

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