Di Valerio Zafferani
“Nel precedente articolo abbiamo iniziato ad approfondire il concetto di sostenibilità partendo dalle generazioni, dall’impatto che esse hanno sul nostro tessuto sociale ed economico e dai rischi che le imprese corrono nel non comprendere le dinamiche attuali e legate a tali aspetti sociologici. Ampliamo quindi, con questo articolo, il grande tema dei rischi.
Le imprese, private e pubbliche, hanno adottato un processo che nasce negli Stati Uniti fra gli anni ’40 e gli anni ’50 di risk management, o gestione del rischio. Tale processo aziendale è finalizzato alla valutazione e pianificazione di tutte le attività necessarie alla riduzione del potenziale impatto negativo che variabili interne o esterne all’organizzazione hanno sul conseguimento degli obiettivi aziendali.
Rispetto a qualche tempo fa, però, la sostenibilità strategica, intesa come il motore di un modello di business che possa essere durevole nel tempo, impone una visione molto più ampia e circolare della valutazione dei rischi d’impresa. Non solo aspetti generazionali quindi, ma anche di accesso al credito e minori costi creditizi, di compliance normative e filiere produttive nonché, a latere, di greenwashing. Necessitiamo, quindi, di una capacità di analisi prospettica sostenuta dall’informazione e costante formazione su temi d’impresa connessi.
Il rischio di accesso al credito sarà piuttosto evidente per gli operatori economici che non avranno determinato delle strategie d’impresa collegate agli ESG (Environmental, Social, Governance) e che, quindi, avranno difficoltà a dialogare con banche, fondi d’investimento e finanziatori in genere.
Appare chiaro che la stretta creditizia, già in atto da qualche anno con i vari Accordi di Basilea la cui la finalità è rendere maggiormente stabile la moneta e la finanza, non potrà che inasprirsi verso un’azienda che non si allinei, o peggio non abbia intenzione di farlo, ai criteri guida della sostenibilità. Il perché siamo arrivati a questo punto riguarda lo sviluppo del sistema capitalistico e dobbiamo risalire ad una data chiave, quella del 15 settembre 2008, quando la nota banca d’affari americana Lehman Brothers chiuse i battenti, fallendo.
Fino a quel giorno il sistema capitalistico, come lo avevamo conosciuto, aveva vissuto di tre macro-fasi: pre-‘900; da inizio ‘900 fino agli anni ’70, passando dal 24 ottobre 1929 (conosciuto anche come il ‘giovedì nero’); dagli anni ’70 fino appunto al 2008. È soprattutto nella terza fase che avviene la separazione tra finanza ed impresa e il ceto manageriale si trova di fronte ad un nuovo obiettivo: rispondere alla massimizzazione del capitale investito dagli operatori del settore.
La finanza, quindi, prende il sopravvento sull’economia reale e di conseguenza il settore economico-produttivo cerca di riequilibrare ciò che, di fatto, era divenuto tossico (pensiamo al problema dei derivati). Arriva quindi la finanza sostenibile. Si spiega così il perché si è giunti alla stretta dei finanziamenti quando le imprese non sono in linea con i criteri ESG.
Negli ultimi periodi si nota anche una certa instabilità negli atteggiamenti dei colossi finanziari verso gli investimenti in ESG. Nonostante ciò, autorevoli esperti hanno sottolineato come in realtà ciò che sembra un allontanamento da parte di tali player dalla finanza sostenibile, rappresenti un cambio di passo affinché tali finanziamenti diventino strategici e non di mera speculazione.
Giova qui approfondire, prima di proseguire nella disamina dei rischi, cosa intendiamo quindi per ESG. Partiamo dall’ultimo termine, relegato al terzo posto dalla nomenclatura Europa, ma che di fatto dovrebbe essere il primo pilastro ad essere preso in considerazione. Per Governance intendiamo, infatti, l’organizzazione aziendale.
Essa ha uno stretto legame tanto con la cultura che permea l’azienda, dai piani alti fino alla sua base, quanto con l’eticità dei comportamenti messi in atto. Non basterà infatti un Codice Etico, per quanto ben scritto ed impaginato, a sollevare la compagine aziendale da quei comportamenti valoriali e scelta del purpose aziendale (lo scopo ultimo dell’impresa) che devono orientare la bussola nelle decisioni strategiche e quotidiane. Fermo restando il profitto come motore di un’attività, è vero però che la filosofia, al giorno d’oggi, sia modificata: non più un’impresa che ha un obiettivo di profitto per poi reinvestire nel sociale parte dei propri guadagni, ma piuttosto un’impresa che abbia l’obiettivo di creare un ecosistema attorno a sé, fatto di persone ed interessi, e che generi profitto come sua logica conseguenza.
Il cambio di paradigma non è banale e ci aiuta a capire perché fare sostenibilità oggi è importante per tutti gli stakeholder di un’azienda. Ecco, quindi, dove entrano in gioco gli altri due pilastri: la S e la E.
La S riguarda, appunto, il sociale: dipendenti e loro relazioni, nonché comunità. Le politiche di welfare, che un’azienda può mettere in campo ben strutturate, sia nella normativa che nel contenuto, quanto possono incidere nel miglioramento del benessere del personale? Magari sostenendo quel work life balance (il bilanciamento vita privata-lavoro) tanto ricercato soprattutto dalle generazioni più giovani ma che sta trovando appeal anche nei meno giovani.
Arriviamo ora alla E: l’ambiente. Un tema, quello ambientale, estremamente di attualità e che, come già espresso in altri articoli, ha rappresentato la base di partenza del processo di sostenibilità. Politiche di ottimizzazione o di efficientemente energetico, bilanciamento della CO2 prodotta con operazioni di riforestazione, rappresentano solo due esempi di tattiche ed aprono la strada a molteplici interventi volti a rendere più produttiva la catena del valore aziendale. Una riflessione: i problemi ambientali nascono da problemi sociali e non viceversa. Va da sé che investire in ESG significa attivare gradualmente tutte le politiche necessarie partendo dalla cultura aziendale per arrivare alla salvaguardia dell’ambiente. Diversamente sarebbero solo operazioni di facciata con il rischio greenwashing, tema che andremo a trattare nel prossimo articolo.
DONA ORA E GRAZIE PER IL TUO SOSTEGNO: ANCHE 1 EURO PUÒ FARE LA DIFFERENZA PER UN GIORNALISMO INDIPENDENTE E DEONTOLOGICAMENTE SANO
Gli Scomunicati è una testata giornalistica fondata nel 2006 dalla giornalista Emilia Urso Anfuso, totalmente autofinanziata. Non riceve proventi pubblici.
Lascia un commento