Rubrica a cura del dottor Claudio Rao
Una delle forme della distensione, del concedersi una pausa nella folle corsa contro il tempo è la capacità di perdonare. Per molti versi è molto simile al meccanismo dello staccare la spina.
Il perdono si riferisce ad avvenimenti passati che non possiamo più cambiare e sui quali non abbiamo più il potere d’intervenire. Perdonare significa dunque accettare l’offesa, la ferita emozionale (passata o ancòra presente ed operante) senza volerla negare né dimenticare. Perdonare dunque significa ricordare.
Perdonare significa voler alleviare la propria sofferenza, abbandonando ogni desiderio di vendetta, evacuando il proprio rancore, accantonando il dolore risentito e l’esigenza di aver ragione.
Perdonare è accettare ciò che è successo come un fatto avvenuto e relegato al passato; rinunciando a prolungarlo nel presente. Per non esserne più preda.
Quando ero piccolo e mi comportavo male verso qualcuno, i miei genitori mi invitavano a “chiedere scusa” e a “fare la pace”. Dopo essermi scusato, tendevo la mano ed attendevo che quella del mio coetaneo stringesse la mia. Così, confuso e frustrato, avevo l’impressione di aver riparato il malfatto.
Non è questo quello il “perdono” che intendo. Il perdono non si dovrebbe mai imporre. Esso dovrebbe rimanere un’iniziativa squisitamente personale. Sincera, autentica. Mai imposta.
Perdonare è un processo delicato e complesso che richiede di prendere le distanze da certe prassi culturali, familiari e sociali.
In certe mentalità e culture (quella mafiosa, ad esempio) il perdono è considerato una forma di debolezza, quando non addirittura di tradimento.
Alcune persone potrebbero ritenersi incapaci di perdonare perché troppo rancorose o perché l’offesa loro arrecata è troppo grave per essere perdonata. Tuttavia, se il perdono servisse a scusare solo i piccoli torti e non i grandi, potremmo ancòra considerarlo un atto tanto nobile?
A volte è il tempo ad essere “galantuomo” e, a seguito di una malattia o all’approssimarsi di una dipartita, riusciamo infine a voltare la pagina.
In molte situazioni perdonare significa non solo cessare le proprie sofferenze, ma anche avviare la ricostruzione di una relazione necessaria, inevitabile.
Penso a casi approdati nel mio studio di separazioni e divorzi piuttosto difficili. Mogli o mariti che hanno tradito il proprio coniuge (in senso reale o figurato) dove la reazione è stata proporzionale all’offesa, generando sofferenza da entrambe le parti. Il vissuto della vittima è talora così traumatico da renderle impossibile l’idea stessa del perdono!
Spesso nel bel mezzo della tempesta ci sono i figli avuti insieme e bisognosi di un colloquio tra i due genitori. Ad essi possono aggiungersi i nuovi compagni di vita e di strada di mamma e papà che rischiano di farne le spese (perché sentono continuamente parlare del proprio ex o sono vittime della diffidenza dovuta alla relazione appena naufragata).
Il perdono, quello vero, appare allora la soluzione per sbloccare la situazione e permettere a ciascuno di riprendere il proprio percorso, avviandosi con matura serenità verso un futuro diverso.
Può capitare di essere convinti di aver perdonato. Di aver accettato le scuse del nostro interlocutore, ricominciando a frequentarlo. Ma in fondo è rimasto un velo di rancore. Sentimento che emerge ad ogni occasione propizia, in cui gli facciamo chiaramente percepire di essere stati generosi a perdonarlo… Pensando che in fondo non sia cambiato e che possa ricominciare ad ogni momento!
Altre volte percepiamo chiaramente che in realtà si tratta di una recita a beneficio del nostro entourage (spesso familiare), mentre la nostra sofferenza è tutt’altro che cicatrizzata.
Risulta chiaro che questi e simili casi, non rappresentano il perdono in senso stretto e non possono favorire una reale distensione della nostra mente e del nostro spirito. Per questo è indispensabile non perdonare troppo rapidamente (e superficialmente) ignorando la profondità della ferita generata in noi dalla situazione. Il rimedio potrebbe allora rivelarsi peggiore del male!
Per perdonare “sul serio” non bisogna più trovarsi in condizione di essere ulteriormente offesi o feriti. Non è possibile prendere le distanze da una sofferenza subendone ancora la situazione che l’ha generata. Il processo potrà incominciare quando saremo “al riparo” e non rischieremo più di rivivere l’aggressione che lo ha generato.
Inoltre è importante prendere lucidamente atto dei danni e della sofferenza che la persona o la situazione ci ha causato e continua a causarci. Lo scopo non è accrescere l’astio o il desiderio di riparazione, ma quello di poter esprimere il nostro dolore a colui o colei che lo ha provocato (prescindendo dall’intenzione che poteva avere chi ce lo ha inflitto).
Altra cosa importante è di capire la ragione per la quale intendiamo staccare la spina, perdonare, passare oltre. Sarebbe un errore, per esempio, voler perdonare per sembrare migliore dell’altro. Non è lo scopo di un autentico processo di perdono.
Ultimo accorgimento importante è dare un significato al nostro gesto: cosa ci insegna su noi stessi? Ci fa crescere? Ci permette di emanciparci dal nostro ruolo di vittima sacrificale?
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Gli Scomunicati è una testata giornalistica fondata nel 2006 dalla giornalista Emilia Urso Anfuso, totalmente autofinanziata. Non riceve proventi pubblici.
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