Dolore e Sofferenza: sono “casuali” o hanno uno scopo? La posizione del Cristianesimo e le sue aberrazioni

Dolore e Sofferenza: sono “casuali” o hanno uno scopo? La posizione del Cristianesimo e le sue aberrazioni

Di Sergio Ragaini

Dopo avere, nel precedente articolo, descritto il tema della sofferenza in modo più generale, anche se legato, sotto buona parte degli aspetti, alla Filosofia Buddhista, in questa parte del mio lavoro sul tema della sofferenza affronto il discorso secondo un’ottica più legata al Cristianesimo.

Qui, uno dei simboli maggiormente venerati è un simbolo di sofferenza come il Crocefisso: nel Cristianesimo stesso almeno in alcune sue forme, appare, talvolta, una sorta di “ricerca” della sofferenza, che a tratti raggiunge livello davvero elevati e paradossali. In questo articolo cerco di comprenderne le motivazioni, e le eventuali “aberrazioni” di pensiero che portano a questo, trovandone le analogie e, forse, alcune radici, oltre che conseguenze, anche nella nostra quotidianità. E, sicuramente, cercando di “prospettare” un modo diverso di vedere il tema della sofferenza, comunque come “passaggio”, verso qualcosa di diverso, senza nessuna accezione sacrale o salvifica.

Dopo avere trattato, nel precedente articolo, il tema della sofferenza, in modo più generale, e legato principalmente alla filosofia Buddhista, vediamo invece come il Cristianesimo, e mi riferisco a quello “odierno”, in particolare cattolico, si occupa di questa tematica. Per capire come, purtroppo, il tema del dolore e della sofferenza sia qui in buona parte “stravolto”.

Torniamo alla frase proposta all’inizio del precedente articolo: la Croce come mezzo di redenzione. È uno dei capisaldi del Cristianesimo, secondo il quale Cristo è morto “per la nostra salvezza”. Infatti, nella messa si dice: “Cristo, morto per la nostra salvezza, gloriosamente risorto e asceso al Cielo”.

La Resurrezione

Mi ero occupato del tema della Resurrezione in un mio libro: “Resurrezione di Cristo tra Scienza e Spiritualità”, scritto nel periodo successivo alla Pasqua 2014. un libro che tratta il problema da tutti i punti di vista, compreso quello più strettamente legato all’aspetto scientifico, e del “Cambiamento del corpo”.

Non tratterò quindi il tema della Resurrezione, già in parte trattato in un mio articolo sul tema della Reincarnazione. Qui, come nel citato libro, mostravo come, tra Resurrezione e Reincarnazione, non vi sia alcuna incompatibilità.

La sofferenza salvifica

Quello di cui voglio invece occuparmi è il tema della sofferenza, soprattutto intesa come “salvifica”.

Uno dei simboli del Cristianesimo Cattolico è il crocifisso. In altre Tradizioni Cristiane, che sono “iconoclaste”, quindi non ammettono immagini di Dio, vi è solo la croce.

Questo simbolo, che noi associamo alla sofferenza, è invece un simbolo, direi, non negativo. Tra gli Annunaki e gli Elohim, la Croce era un simbolo di potere, di potenza. Indicava dominio, potere.

La croce, però, era a bracci uguali, e non diseguali. La croce a bracci diseguali, come lo studioso Ubaldo Carloni faceva notare, rappresenta il dominio del Mondo Spirituale su quello materiale. Che, però, viene inteso come accettazione passiva della sofferenza, in nome di una futura vita eterna.

San Paolo: lettera ai Romani

Non è un caso che San Paolo, nella sua Lettera ai Romani, dicesse: “Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono si attireranno addosso la condanna” (Romani, 13, 1-2).

San Paolo, in questa Lettera, prosegue allo stesso modo, e con lo stesso tono di invito alla sottomissione: “I governanti infatti non sono da temere quando si fa il bene, ma quando si fa il male. Vuoi non aver da temere l’autorità? Fa’ il bene e ne avrai lode, poiché essa è al servizio di Dio per il tuo bene. Ma se fai il male, allora temi, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male. Perciò è necessario stare sottomessi, non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza. Per questo dunque dovete pagare i tributi, perché quelli che sono dediti a questo compito sono funzionari di Dio.” (Romani, 13, 3-6).

In questo testo vediamo una completa associazione tra “Legge” e “Giustizia”: la Legge è, per definizione, giusta. Viene addirittura detto che l’Autorità “è al servizio di Dio per il tuo bene”. “Fare il bene”, in questo caso, è “agire secondo i dettami dell’autorità costituita”, qualsiasi essa sia. Il “bene”, quindi, è virtualmente ogni forma di sopruso, e l’autorità costituita può compierlo. In fondo, però, purtroppo la Chiesa Cattolica ha imparato molto bene questa lezione, e la scia di sangue lasciata dietro di sé nei secoli parla piuttosto chiaramente!

L’idea che “l’Autorità venga da Dio” è un modo per permettere alle persone di accettare qualsiasi sopruso da parte dell’Autorità, accettandone qualsiasi sottomissione richiesta. Insomma: il Potere non si discute, e va considerato come “assioma”, in questo caso come Dogma.

Si noti l’analogia tra questo modo di pensare e quanto accaduto in questi ultimi anni. Infatti, possiamo vedere come, negli ultimi anni trascorsi, le persone non mettessero nemmeno in discussione quanto diceva il Sistema, in quanto, probabilmente, era passata nell’inconscio l’idea che, per definizione, il Potere non va discusso.

Tornando ancora più indietro, ricordo quando, ancora anni fa, discutendo con mio padre della bontà o meno di determinati Regolamenti, la sua risposta perentoria era stata: “E’ una Legge dello Stato!”. Ecco, lo Stato diveniva una sorta di valore assoluto, al cui volere non ci si poteva in alcun modo opporre. E questo si vede ovunque, in un atteggiamento, molto “italiano”, quasi sempre “fatalista” e rinunciatario. Tornando, quindi, come dicevo nel mio precedente articolo, all’idea che le cose “Le manda Dio”, potere compreso. In fondo, “come in alto così in basso”! 

Anche nella Filosofia, è stato facile passare dal Giusnaturalismo di Johannes Althusius , espressione delle Leggi naturali, a quello di Jean Bodin, secondo il quale il Potere deriva da Dio.

L’idea dell’opera salvifica della Chiesa Cattolica

Esaminando però il comportamento della Chiesa Cattolica,  come affermavo nel mio articolo dedicato alle Eresie, la Chiesa Cattolica aveva posto questa etichetta a tutti quei movimenti spirituali che escludevano, in qualche modo, la necessità dell’opera salvifica della Chiesa, autoproclamatasi unica mediatrice tra l’Uomo e Dio. E, credo, questo sia molto collegato alla visione del Potere da parte di San Paolo.

Tornando alla croce, questo è un simbolo di potere, di potenza. Nel caso di Cristo, quindi, potrebbe simboleggiare il Potere sul Mondo, l’avere “vinto il Mondo”, come viene anche detto spesso nella Tradizione Cristiana.

Questo, credo, possa essere il messaggio di Cristo: indicare una Via per superare il Mondo, entrando nella piena unità con sé.

Questo, però, non appare nella Tradizione Cristiana attuale, in particolare Cattolica, dove si pone una forte enfasi sulla passione di Cristo. Una passione che ha dato origine anche a capolavori musicali come quelli di Bach, con le sue stupende “Passione secondo San Matteo”, e “Passione secondo San Giovanni”.

Al di là, però, dell’aspetto musicale, e a quello emozionale, quello della “Morte e Resurrezione” di Cristo è un tema sicuramente aperto. E, almeno secondo me, è il caso di andare un po’ più in là rispetto a quanto ci viene raccontato: esattamente come nel caso della Trinità, di cui avevo già parlato per questo Giornale. Anche qui, quindi, si può provare a cercare di superare il “muro del Dogma”, a squarciale il “Velo di Maya” che questo dogma genera, per vedere brillare, al di là, la luce della conoscenza e della consapevolezza.

Gli elementi che qui si possono discutere sono due. Anzi, tre.

Il primo è quello della resurrezione in sé: cosa può voler dire che “Cristo è risorto”?

Il secondo è invece quello del “Morto per noi”, o, per dirlo alla Cristiana: “Morto per i nostri peccati”.

Il terzo è quello dell’identificazione, della ricerca quasi spasmodica, da parte di alcune persone, della medesima sofferenza di Cristo, visto come mezzo per “conformarsi a lui”. Quest’ultimo elemento è una chiara aberrazione, e sarà il caso di spenderci più avanti qualche parola.

Andiamo quindi con ordine: il primo elemento è la resurrezione. Un evento che viene evidenziato come “evento unico”. In effetti, la resurrezione è un “cambiamento di corpo”, come anche la Teosofia definisce. Un cambiamento di stato di materia. Che permette, in tal senso, di apparire in forme differenti a seconda dei momenti, come è accaduto allo stesso cristo, nelle sue varie apparizioni, prima della Pentecoste, che per i Cristiani rappresenta la sua definitiva ascesa al Cielo (infatti, la Pentecoste si chiama anche “Ascensione”). Questa avviene sette settimane dopo la Pasqua.

Notare che 49 giorni sono anche il numero di giorni del “Bardo” che per la Tradizione Tibetana rappresenta lo Stato di un Essere tra due rinascite: infatti, la parola “Bardo” vuol dire proprio “Tra due rinascite”, mentre “Bardo Thodol” indica il Libro Tibetano dei Morti, dove tutti i passaggi che l’Essere deve compiere tra due rinascite vengono minuziosamente descritti. Ancora, torna il numero 7, che torna anche in altri momenti quali la Creazione, che avviene in 7 giorni, e in dichiarazioni quali quella di Cristo, quando afferma che “Non bisogna perdonare 7 volte, ma 70 volte 7”: Infatti, in Matteo, 18, 22 si legge: “E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette”.

La Resurrezione, comunque, non è avvenuta solo per Cristo. Altre Divinità muoiono e risorgono.

È già noto il mito dell’Araba Fenice, di cui parla anche Dante. Questo uccello mitologico si lascia bruciare, per poi rinascere dalle sue ceneri. Dante così la descrive nella “Divina Commedia”:

“Così per li gran savi si confessa
che la fenice more e poi rinasce,
quando al cinquecentesimo anno appressa;

erba né biado in sua vita non pasce,
ma sol d’incenso lagrime e d’amomo,
e nardo e mirra son l’ultime fasce.”

(Inferno, 24, 106-111)

Come “ultime fasce” compaiono mirra e nardo, che compaiono anche in altri casi. La mirra è uno dei doni che viene fatto dai Magi a Cristo appena nato. E Dante dice che, tra i cibi della Fenice, c’era l’incenso, altro dono fatto dai Magi.

Forse la più grande analogia con Cristo è quella col Dio Horus, Dio dell’antico Egitto, che simboleggia il sole. Horus ha avuto, di fatto, una vita fotocopia rispetto a quella di Cristo, anche nei luoghi.

Come Cristo, Horus è nato da una Vergine, ha avuto 12 apostoli, ha predicato dall’età di 12 anni, è stato battezzato a 30 anni, è stato tradito da un discepolo, è stato messo in croce ed è risorto al terzo giorno.

Esattamente come le due divinità, o quasi, sono morti in croce e risorti Krishna (una delle manifestazioni di Visnu, esattamente l’ottava incarnazione, il quale è la seconda persona della Trimurti Induista), Dioniso (divinità greca), e Mitra (divinità romana, “importata” dalla Persia). Se si vedono, poi, gli altari di quest’ultimo, si scopre che sono molto simili a quelli cristiani. Inoltre, il copricapo cardinalizio si chiama “Mitra”.

Il Grande Istruttore

A questo punto, potrebbero sorgere due possibilità. La prima è che si tratti della stessa essenza che torna attraverso il tempo, attraverso i secoli. Insomma: la stessa figura che ritorna. Un’ipotesi simile potrebbe essere in qualche modo analoga a quella della Teosofia, che parla della figura del “Grande Istruttore”, il quale tornerebbe nelle varie epoche per portare lo stesso messaggio,  assumendo via via forme differenti.

L’analogia tra nomi quali “Krishna” e “Cristo” potrebbe orientarci in quel senso.

Un’altra possibilità, sicuramente avvincente, è quella espressa dal film “Zeitgeist” (lo si può vedere cliccando sul titolo). Qui, il primo episodio è totalmente dedicato all’affinità tra Cristo e altre divinità.

Il film è decisamente molto preciso nel cercare di dimostrare che, in fondo, la vita stessa di Cristo è una metafora dello Zodiaco, i cui 12 segni rappresenterebbero i “12 apostoli”, e dove la “Vergine Maria” è in realtà la Costellazione della Vergine. Cristo rappresenta il sole, che è anche rappresentato dal Dio Horus. I 12 segni zodiacali rappresentano la cosiddetta “Croce dello Zodiaco”, di cui il sole è al centro. Non a caso viene fatto notare che Cristo porta, in diversi dipinti e sculture, una croce dietro il viso: simbolo proprio del suo essere al centro della Croce dello Zodiaco.

La crocefissione

La Crocifissione sarebbe data dal fatto che, dal 22 al 25 dicembre, il sole raggiunge il punto più basso, in prossimità della Croce del Sud, provocando quella che metaforicamente si potrebbe chiamare: “la morte del Sole”. Per poi risalire. La vittoria definitiva della luce sull’oscurità vi è, però,  dopo il Plenilunio di Primavera: per questo si festeggia la Pasqua in quei giorni.

Il primo episodio del Film in questione mostra come ogni episodio del Vecchio e del Nuovo Testamento abbia una corrispondenza nei miti del passato.

Il Cristianesimo stesso, vista anche la posizione in cui si è sviluppato, ha attinto largamente da culti preesistenti. Compresi quelli Orientali, ma in particolare quelli presenti nella zona geografica in cui Cristo si è trovato.

Personalmente, pur ritenendo che il film presenti interessanti spunti di indagine e riflessione “a largo respiro”, non sono “categorico” come il Film “Zeitgeist”: i Maestri Spirituali, almeno secondo me, sono venuti per portare un messaggio di grande valore per gli Uomini, e per indicarci che siamo sicuramente “di più” di quello che crediamo di essere. Sono venuti, essenzialmente, per liberarci dal Potere, per renderci liberi.

Come ricordava anche Igor Sibaldi, non esistono testi Sacri “delle Religioni”, come qualcuno potrebbe pensare: esistono solo testi che tramandano il messaggio di Grandi Maestri. Messaggi dei quali le Religioni si sono impossessate, per potere meglio controllare i Popoli. In questo, quindi, “ribaltando” l’opera dei Maestri a cui le Religioni fanno capo, i quali, come dicevo, sono venuti per liberarci da gioghi, e non per sottoporci a nuovi gioghi

Eresie

Nel mio precedente articolo ho mostrato, spero in maniera sufficientemente dettagliata, come le cosiddette “Eresie” siano stati in realtà Movimenti portati a far comprendere all’Uomo quello che davvero è, quello che davvero è il suo ruolo nel Mondo. Purtroppo le Religioni sono riuscite, in tal senso, a rendere l’Uomo soggiogato al loro Potere, anche combattendo questi movimenti che volevano utilizzare il “vero” messaggio di liberazione di Cristo. E facendo, come evidenziato nell’articolo, facendo passare chi ha combattuto questi movimento come Santo.

Non è un caso che i veri Grandi Maestri, come Krishnamurti, abbiano affermato che lo scopo del Maestro è far sì che le persone trovino il Maestro dentro di loro, per camminare con le proprie gambe. La scintilla divina è dentro di noi: per questo non uso il termine “fede”, ma “consapevolezza”: non si tratta, secondo me, di “credere” che questa scintilla ci sia ci sia: quella è per me un’evidenza. Piuttosto occorre “divenirne consapevoli”.

È ovvio che, per un Sistema che vuole controllare le persone, la ricerca del dolore a tutti i costi, come mezzo per “espiare” presunte colpe, è un mezzo molto potente di controllo: la persona felice, gioiosa, è infatti libera, mentre la persona sofferente avrà spesso (se non sempre) bisogno di qualcuno che, in qualche modo, lo liberi dalla sofferenza.

E qui torniamo a quello che dicevo nel precedente articolo, preparando in qualche modo la risposta a quanto dicevo poco fa, riguardo al sacrificio di Cristo: il dolore è qualcosa che si incontra, un campanello d’allarme sul nostro cammino: non è di certo un qualcosa da bramare!

Torniamo all’esempio, fatto in quell’articolo, del Medico che tocca il corpo del paziente: lo scopo di questo è capire che problemi ci sono: in quel senso, il dolore è perfettamente funzionale.

Tuttavia, una volta identificato dove è il dolore, il medico non continuerà a premere dove fa male, per consentire un’ipotetica “espiazione” di chissà quale colpa! Ha raggiunto il suo scopo, comprendendo dov’è il problema, e passerà quindi a studiare delle possibili soluzioni!

Il dolore ha questa funzione: capire dov’è un problema, per permettere di identificare soluzioni.

Cristianesimo e ricerca del dolore e della sofferenza

Nel Cristianesimo, almeno in quello Cattolico, sembra invece che vi sia una ricerca quasi “spasmodica” del dolore. In passato ricordiamo gruppi quali gli Umiliati e i Flagellanti, i cui membri si flagellavano il corpo. Ricordiamo penitenze quali quella del cilicio, di cui parla anche il Manzoni ne “I Promessi Sposi”: una cintura pungente, talvolta addirittura con chiodi inseriti, che la persona si poneva in vita in segno di penitenza.

Questo, forse, già parzialmente risponde alla terza delle questioni poste in precedenza: vedrete che la seconda seguirà abbastanza facilmente.

Nel Cristianesimo uno dei simboli è Cristo in Croce: ci si chiede il perché di questo simbolo di sofferenza, quando ce ne potrebbero essere di più luminosi!

Anche i Mistici del passato, più o meno remoto, come San Francesco e Padre Pio, gioivano nell’avere ricevuto le Stimmate, le piaghe di Cristo. Perché, ad esempio, non ricevere un’aureola di luce, invece? Direi che sarebbe molto meglio!

Nel Mondo Cristiano vi sono nomi di battesimo come “Crocifisso”, “Addolorata” e simili.

Insomma: pare di trovarsi davanti ad una ricerca della sofferenza a tutti i costi. Una sofferenza quasi incomprensibile, che rasenta i confini dell’autolesionismo, e, forse, li supera, e nemmeno di poco.

Se, però, osserviamo i simboli di questo autolesionismo, comprendiamo bene il perché di questi atteggiamenti. È facile, infatti, osservare che tutti questi elementi sono relativi alle sofferenze che Cristo ha dovuto subire. In qualche modo, quindi, scatta una sorta di “identificazione” con la sofferenza di Cristo, del tipo: “Per essere come Cristo, devo soffrire come lui”, oppure come “Se Cristo, per risorgere, ha dovuto soffrire, allora anch’io, per risorgere, dovrò soffrire come ha fatto lui”.

Da qui la ricerca spasmodica della sofferenza. Una ricerca enfatizzata anche in preghiere, quali lo “Stabat Mater”, nella quale si recita:

Fac me Plagis vulnerari, Cruce hac inebriari”, che significa: “Fa’ che sia ferito delle sue ferite, che mi inebri con la Croce e del sangue del tuo Figlio.”. Si conclude poi con “Fac me tecum plangere” , “Fa che io possa piangere con te”, riferendosi a Maria, madre di Gesù.

Insomma: per poter “piangere con Maria”, quindi essere in empatia con Gesù, occorre “ricoprirsi di piaghe”. Questa, insomma, è la massima soddisfazione per il Cristiano. Quindi, ricevere le piaghe di Cristo è la massima aspirazione.

Il Cabalista Moshe Idel affermava, in un convegno sul “Cervello Mistico”, tenutosi anni fa a Lugano, che le stimmate sono un caso estremo di autosuggestione. In effetti, è un simbolo triste, di sofferenza: come dicevo, perché non aspirare, piuttosto, ad un’aureola di luce o ad altri simboli luminosi?

Questa identificazione con la sofferenza, da ricercare a tutti i costi, porta con sé un’altra situazione: qualsiasi aiuto agli altri deve passare da un nostro sacrificio, altrimenti non ci può essere vero aiuto.

Ricordo, nella mia infanzia, quante volte i miei genitori enfatizzassero questa idea del sacrificio, dicendomi che “non mi sacrificavo” o che “non sapevo soffrire”. In questo si vedeva la ricerca della sofferenza e del sacrificio a tutti i costi. Dove, tra l’altro, la parola “sacrificio” significa “sacro ufficio”, quindi “azione sacra”, e non di sicuro “azione dolorosa”, come viene interpretata oggi.

Per cui, non importava nemmeno l’azione che si faceva: se questa comportava sofferenza e rinunce, magari a quello che veramente si sentiva importante, andava bene.

Insomma: il senso della vita rischia di diventare non fare quello che si sente davvero buono per sé, perché questo “sacrificio” (ufficio ben poco sacro, in questo caso!) è l’unico mezzo verso la salvezza.

Tuttavia, questo “sacrificio a tutti i costi” diviene anche un nuovo mezzo di potere: infatti, spesso, chi attua questo sacrificio, utilizzerà la cosa per far nascere “sensi di colpa” in coloro i quali gli sono vicino, “rei” di non riconoscere pienamente il suo sacrificio e di non sacrificarsi a loro volta. In famiglia, purtroppo, ho avuto modo di sperimentare tutto questo.

Addirittura, questo “sacrificio di altri per noi” rischia di provocare una sorta di identificazione: se lui ha sofferto per me, anch’io devo soffrire, magari proprio per lui. E, come appena mostrato, laddove questo non avviene chi si è presuntamente “sacrificato” ci redarguirà: infatti, è come se il suo sacrificio avesse provocato in altri un “debito” da saldare con lo stesso “spirito di sacrificio”.

Nel caso di Cristo, l’equazione è abbastanza evidente: Cristo è morto “per noi”, e noi, per mostrargli riconoscenza, abbiamo solo un modo: soffrire anche noi: per lui o per altri non importa, ma dobbiamo soffrire. Solo così pagheremo il nostro “debito” verso di lui, che è morto “per noi”.

Nei termini che ponevo prima, invece la cosa potrebbe risuonare come: “Siccome io mi sono sacrificato per te, tu mostrami riconoscenza, sacrificandoti a tua volta per me”. In fondo, nelle famiglie questa equazione si ritrova spesso, ed è portata avanti ricatti e violenze implicite, anche se non fisiche (almeno non sempre!).

In pratica, abbiamo risposto anche alla seconda dette tre questioni poste in precedenza: il fatto, quindi, che Cristo sia morto “per i nostri peccati”.

Nel Buddhismo Tibetano esiste una meditazione, che si chiama “Tong Len”. In questa, una persona prende su di sé la sofferenza di un altro, e gli dona gioia. Ecco, Cristo potrebbe avere fatto un grande “Tong Len”: avere preso, quindi, su di sé la sofferenza (e, in termini di reincarnazione, il “karma” di tutti) di tutti, donando poi non solo gioia, ma anche la Resurrezione, e la coscienza che tutti possiamo risorgere.

Tuttavia, l’utilizzo che si fa di questa “morte per la nostra salvezza” è di sicuro strumentale: in questa, vedo la figura di un genitore che rinfaccia ad un figlio qualcosa come: “Guarda cosa ho fatto per te! E tu non fai niente per me!”. Questo, quindi, porta subito un’identificazione con la sofferenza, ed un desiderio di soffrire perché un altro l’ha fatto per noi.

E qui appare chiaramente un altro simbolo: quello del crocefisso. È un simbolo, secondo me, di grande tristezza. E, soprattutto, è un simbolo. La parola “simbolo”, come ho ricordato altre volte, deriva da “Symballein” che vuol dire “portare assieme”, esattamente all’opposto della parola “Diaballein” che vuol dire “separare, portare lontano”: parola da cui deriva “Diavolo”, che appunto è “il separatore”: si veda,a tal proposito il mio articolo sul tema del diavolo, scritto per questo giornale nell’agosto 2020.

Quando una persona usa un simbolo, quindi, ne assume immediatamente il significato, al di là dell’attività logica.

Nel caso dei crocefisso, quindi, l’identificazione è con la sofferenza, non con la resurrezione e la gloria. La persona che si identifica con quel simbolo: quindi, cercherà sofferenza, per poter in qualche modo “saldare il debito” di sofferenza che Cristo ha aperto verso tutti. E, di conseguenza, cercherà sofferenza.

Va anche detto che il simbolo originale di Cristo non era la croce, ma i pesci. Il motivo di questo, nel film “Zeitgeist”, viene indicato come il fatto che, con Cristo, si sia entrati nella cosiddetta “Era dei Pesci”. Tuttavia, i pesci sembrano essere stati anche il simbolo di Visnu, la seconda persona della Trimurti Induista, di cui Krishna è una delle manifestazioni (come visto, l’ottava reincarnazione).

Tuttavia, la Croce, come visto in precedenza, non è un simbolo di sofferenza, bensì di potere. E Cristo rappresenta il potere sul mondo. La “Crocifissione”, quindi, potrebbe essere soltanto un simbolo di Potere.

Comunque sia, “Tong Len” a parte, non credo, ed è ovviamente un mio parere personale, che nella morte di Cristo vi sia un elemento salvifico. È stato ucciso come lo sono stati altri grandi Maestri Spirituali. I quali sono andati contro un Potere Costituito. Tuttavia, in nessuna di queste uccisioni è stato introdotto un ipotetico “Potere Salvifico”: si tratta solo di uccisioni. Il Cristianesimo, in tal senso, ne è un’eccezione, nonostante la morte e resurrezione di una Divinità sia, come visto, comune ad altre Culture Spirituali. Dove, però, sicuramente tutto questo non ha subito l’enfasi che ha subito nel Cristianesimo.

Purtroppo, però, questa idea ha portato ad una ricerca della sofferenza come mezzo di espiazione.

Quante persone, anche oggi, dicono di “Offrire al Signore” le loro sofferenze, dando a queste un valore nobile!

La sofferenza, e in questo il Buddhismo Tibetano insegna, è solo qualcosa di cui liberarsi. Liberarsene, però, non con un “analgesico”, ma affrontandone la causa, le cause. L’analgesico in questo caso, è rappresentato dall’evasione, dall’oblio, esattamente come, a livello medico, un analgesico allontana temporaneamente il dolore, impedendone la percezione, per poi farlo ritrovare, in maniera forse ancora maggiore, quando il suo effetto sarà svanito. Invece, la liberazione dalla sofferenza deriva dal ricordare chi davvero siamo. Non a caso, la tecnica Psicoanalitica è basata sul ricordo, sul rendere consapevole ciò che non lo è.

Il Buddhismo Tibetano, nelle citate (nel precedente articolo)  prime due Meditazioni Incommensurabili, invita tutti a desiderare, per chiunque, la felicità e le sue radici, e la liberazione dalla sofferenza, e dalle sue radici.

La sofferenza, quindi, non è qualcosa da “offrire” a qualcuno, in nome di una nostra espiazione da qualcosa, in nome di un “debito di sofferenza” contratto con lui, ma è qualcosa che ha delle radici, e lo scopo è quello di trovare queste radici e di andare oltre.

Conclusioni

Consci, sempre, del fatto che noi non siamo “peccatori” che qualcuno deve liberare dal “peccato”, ma “Esseri Luminosi” che hanno in loro la scintilla dell’illuminazione. Dobbiamo solo rimuovere la polvere che la ricopre, come anche il Maestro Thich Nhat Hanh affermava: quando l’avremo fatto, questa brillerà ancora nel suo pieno splendore. Liberandoci da ogni sofferenza. A quel punto, capiremo che la sofferenza non è parte della nostra natura. Che sicuramente non dobbiamo cercarla. Può però essere utilizzata per metterci sulla giusta via per la nostra esistenza. Dove tutto diverrà bellezza.

È, però, solo un passaggio, un mezzo, al limite: non sicuramente un fine, un qualcosa da ricercare in nome di una non so quale espiazione. Questo, auspico, sia risultato chiaro dal mio articolo, e sia ormai parte dei vostri pensieri e della vostra vita.

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Gli Scomunicati è una testata giornalistica fondata nel 2006 dalla giornalista Emilia Urso Anfuso, totalmente autofinanziata. Non riceve proventi pubblici.

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