Editoriale di Claudio Rao
Recentemente, grazie ad un amico, ho scoperto il film « Letters from Iwo Jima » datato 2006 e diretto da Clint Eastwood, vincitore di un premio Oscar.
Esso, insieme al precedente « Flags of Our Fathers », rende omaggio alla molteplicità dei punti di vista (quello giapponese e quello statunitense) sul delicato tema della guerra. Un atteggiamento rabbiosamente assente dall’attualità dello scontro tra Russia e Ucraina. In quest’opera in cui Clint Eastwood ha inteso rendere omaggio ai caduti di entrambi gli schieramenti, i soldati americani scoprono che le lettere inviate a casa dai soldati giapponesi sono identiche alle loro. Veicolano le medesime paure, le stesse emozioni.
Curiosamente mi è tornato alla memoria il film« Joyeux Noël» del 2005 del regista e sceneggiatore francese Christian Carion che narra un’altra realtà dimenticata dalla Storia: la tregua di Natale del 1914, durante la Grande guerra, tra i soldati delle trincee tedeschi, francesi e scozzesi. Un episodio realmente accaduto che manifesta, insieme, il bisogno di fratellanza e l’assurda stupidità della guerra.
Gli appassionati di musica ricorderanno il compianto cantautore Fabrizio De Andrè che ne « La guerra di Piero » espresse in maniera estremamente colorita ed efficace un punto di vista largamente diffuso.
Eppure da un anno a questa parte, queste sagge riflessioni sembrano essere state confinate ai polverosi scaffali della sezione Storia antica di un’oscura biblioteca comunale.
I più còlti tra di noi avranno già sentito parlare di « pseudo speciazione », un concetto legato alle neuroscienze introdotto in psicologia sociale ed in etologìa che cerca di spiegare le modalità della differenziazione culturale. L’etologo austriaco Eibl Eibesfeldt nel libro « Amore e odio » ¹ spiega come gli impulsi aggressivi vengano controbilanciati da inclinazioni empatiche e simpatetiche.
Sarebbe quindi naturale cercare piuttosto “ciò che ci unisce, rispetto a ciò che ci divide”, soprattutto all’interno della stessa cultura e civiltà. Tuttavia, sostiene lo psicanalista statunitense Erik Erikson, proprio a partire dalle teorie di Eibesfeldt, è possibile che un gruppo di individui ne “disumanizzi” un altro per giustificare azioni altrimenti inaccettabili perché gravemente discriminatorie.
Si pensi all’ebreo che non è più italiano, al nero che non è più americano, al non-vaccinato che perde financo gli elementari diritti sanciti dalla Costituzione. E, più recentemente, al russo che non ha più diritto di cittadinanza nell’arte, nella cultura, nella musica e nelle rievocazioni storiche. Perfino nelle preghiere di emittenti cattoliche (dove paradossalmente “cattolico” significa universale) si ricordano i bambini ucraini e non quelli russi, ugualmente vittime della cieca follìa bellica.
Come se, per sfogare o spurgare le frustrazioni, la rabbia, la violenza repressa la via d’uscita fosse l’ostilità verso gli stranieri, i diversi. Una tecnica usata dai regimi del Novecento per distogliere l’attenzione dei popoli dai problemi interni al Paese ed analizzata da Freud (negli anni Trenta) ne « Il disagio nella civiltà » dove spiega il paradosso di una civiltà nata per assicurare sicurezza e protezione che ha invece favorito la promozione di enormi sofferenze.
Ritrovare il vero vòlto della pace significa innanzitutto ascoltare le ragioni dell’altro, non per condividerle, ma per colorare la narrazione di un contraddittorio capace di completare il mosaico di una realtà poliedrica, dolorosa e complessa.
¹ Irenäus Eibl-Eibesfeldt, “Amore e odio. Per una storia naturale dei comportamenti elementari”, Adelphi, 1996 (traduttore G. Pettenati)
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