Berlino, il centro del migliore dei mondi possibili

Berlino, il centro del migliore dei mondi possibili

Editoriale del nostro corrispondente da Berlino Daniel Abbruzzese – (foto di copertina e nel testo: di Daniel Abbruzese)

Una città simbolo, Berlino: da qui sono partiti tutti i venti di rinnovamento della storia recente, qui si è ripensata l’Europa unita in più occasioni. Un centro della cultura e delle subculture unico, dove da sempre si respira aria di libertà. Poteva dunque sottrarsi la metropoli sulla Sprea ai magnifici cambiamenti che stanno imperversando in Europa? Forse sì, ma…

Dove l’arte e la cultura sono di casa

L’inverno è quasi alla fine e, contro ogni previsione iniziale, ai tedeschi sono stati risparmiati geli siberiani e razionamenti energetici. Anche i conflitti sociali, che tanto preoccupavano la parte migliore della società, non sono infine esplosi. Anzi, per citare Ursula von der Leyen, ad un anno dall’inizio della guerra, siamo tutti più solidali e possiamo guardare con fiducia ad un futuro di unità. Berlino si è già portata avanti e, oltre a guardare con speranza in avanti, fa progetti per porsi come immagine di un’Europa rinnovata. O, ancora di più, come un esempio: il 24 febbraio, ad un anno dall’entrata delle truppe russe in Ucraina, l’amministrazione cittadina ha dato un gran segno di coraggio, piazzando il rottame di un carrarmato, arrivato direttamente dall’Ucraina, di fronte alla sede dell’Ambasciata della Federazione Russa. In realtà, gli iniziatori di questa provocazione artistica erano in contenzioso da diversi mesi con l’amministrazione cittadina per avere il permesso di esporre il relitto sul viale Unter den Linden. Wieland Giebel ed Enno Lenze, due intellettuali già celebri per aver fondato il museo Berlin Story Bunker (una delle numerose attrazioni berlinesi che presentano il passato della città in salsa disneyana al turista un po’ distratto), sono felici di aver finalmente fatto arrivare al pubblico il loro messaggio. Che coincide poi con il messaggio espresso dal Festival del Cinema, conclusosi lo scorso fine settimana.

Anche Zelenskij è apparso in video per l’apertura, ricordando come Kyjiw fosse fino a un anno fa una sorta di seconda Berlino: fermento culturale, un entusiasmo bambinesco nel reinventarsi e la voglia di assomigliare a qualsiasi altra città del mondo occidentale. Il presidente citava poi il capolavoro di Wenders “Il cielo sopra Berlino”, sottolineando come l’arte non possa restare muta davanti agli eventi, ma debba parlare per ridurre al silenzio la voce del male. Gli faceva eco il sindaco ad interim Franziska Giffey, che assicurava come la Berlinale, da sempre il più politico dei festival cinematografici, dopo tre anni di restrizioni avrebbe alzato la voce ancora più forte contro le ingiustizie, a fianco della popolazione ucraina e degli oppressi in ogni angolo del mondo.

Per quanto Franziska Giffey dovrà probabilmente presto rinunciare alla sua carica, la città ha già recepito alla lettera il suo messaggio. Ad esempio, il Café Moskau, un caffè storico in stile realsocialista sulla Karl-Marx-Allee, ha già cambiato le sue insegne: per qualche settimana, si chiamerà Café Kiev, o meglio, Café Kyiw – questa sarebbe secondo gli esperti la giusta trascrizione della città natale di Mikhail Bulgakov ed Il’ja Ehrenburg.

La capitale politica dell’Europa moderna

La timida ministra della difesa Lambrecht è stata sostituita da Boris Pistorius, che finalmente progetta un riarmo della Germania a ritmo serrato – per tenere il passo con gli alleati atlantici e mantenere la pace in Europa, ovviamente. La ministra degli esteri Baerbock esige una svolta a 360 gradi della politica estera russa, prima di poter parlare di trattative di pace, e, aggirando il cancelliere Scholz, garantisce l’invio di carri armati in Ucraina, come gli altri partner europei si aspettavano dalla Germania. Olaf Scholz rimane da solo a gestire i rapporti fra l’industria pesante, la Bundeswehr e la Polonia, che si è incaricata di far arrivare le armi a Kiev e di tenere nel frattempo sotto pressione la Germania. Ma di tutto questo i lettori italiani avranno sicuramente letto abbastanza nelle scorse settimane.

In pochi saranno invece a conoscenza degli eventi che hanno turbato la vita politica locale nella capitale. La Corte Costituzionale aveva dichiarato nulle le elezioni per il Parlamento del Land Berlino a causa di evidenti irregolarità (in molti non erano infatti riusciti a votare, ma il numero delle schede scrutinate risultava superiore a quello degli effettivi votanti). Il verdetto giungeva in un momento in cui la legislatura a guida Giffey era già ben avviata e stava riscuotendo i favori della popolazione, grazie ai passi da gigante fatti nella rivoluzione della mobilità: chiusura al traffico di numerose arterie cittadine, sorprendenti aperture di piste ciclabili nelle vie di scorrimento, soppressione di migliaia di posti auto nel centro cittadino. Ma il piglio pragmatico della giovane sindaca e della giunta si riconosceva soprattutto nella visione fresca e innovativa della politica applicata al quotidiano. A titolo di esempio si possono citare le toilette pubbliche unisex, dotate di annessi pissoirs e missoirs: una comodità sconosciuta in molte città europee, ma soprattutto un simbolo di quanto schiacciante sia stata la vittoria dell’esecutivo rosso-verde su un vecchio sistema di valori patriarcali.

La ripetizione delle votazioni, fissata per lo scorso 12 febbraio, si profilava insomma come una formalità, che avrebbe riconfermato i verdi e i socialdemocratici con una maggioranza ancora più solida. Di fatto, il risultato finale è stato un trionfo della democrazia: non solo perché tutto sembra aver funzionato alla perfezione (sono solo poche centinaia le schede votate non conteggiate e ritrovate in qualche scantinato), ma soprattutto perché tutti i partiti democratici hanno vinto. Un po’ più degli altri, con quasi il 30% delle preferenze, ha vinto la CDU, il principale partito di opposizione, guidato da Kai Wegner, che proprio sul dissenso verso la mobilità green aveva incentrato la sua campagna elettorale.

“È un semplice voto di protesta. Che la gente non voglia rinunciare alla propria auto è una tesi infondata”, ha dichiarato l’attivista Rabea Koss, leader dell’organizzazione Der Politik Ziele setzen (“imporre degli obiettivi alla politica”). È stata proprio questa associazione, finanziata da fondazioni private e donazioni, a promuovere un referendum per il prossimo 26 marzo. Qualora il sì dovesse vincere in maniera plebiscitaria (cosa di cui Rabea Koss non dubita minimamente), gli organizzatori presenteranno all’amministrazione berlinese un’agenda stringente, per rendere Berlino la prima città europea a emissioni zero entro il 2030 (o più precisamente, per ridurre le emissioni di gas serra del 95% rispetto al livello del 1990).

Dopo quasi due anni di buongoverno, è legittimo esigere che l’esecutivo si impegni a perseguire gli obiettivi ecologici prefissati, anche prendendo misure draconiane. “Si gira sempre intorno al problema principale, ma nessuno ha il coraggio di affrontarlo”, dichiara Ragnhild Sørensen del Think Tank Changing Cities, “ovvero il possesso privato delle auto. Non vogliamo togliere le automobili alle persone, ma è necessario dimezzare il tasso di motorizzazione dei cittadini e convincerli che non è logico possedere un’auto per tenerla ferma il 96% del tempo”. Kross e Sørensen concordano su un elemento: da qui alla data del referendum sarà fondamentale intensificare il dialogo con i cittadini, soprattutto con quelli residenti al di fuori del centro, che hanno votato in massa per la CDU. Sul piano della politica, qualunque sarà la coalizione di governo che andrà a governare Berlino, le due attiviste hanno già la certezza di poter avere un influsso decisivo sul prossimo governo. E ciò non può che consolarci: qualunque sia il risultato espresso dalle urne, alla fine sono sempre gli intenti positivi a vincere – oltre settant’anni di pace e giustizia sociale in Occidente ce lo dimostrano.

I muri parlano

I graffiti, la streetart, la mail-art, le migliaia di adesivi e volantini sarcastici, gli slogan marchiati a spray sui palazzi sono senza dubbio il lascito positivo della nostra epoca. A Berlino, come altrove, sono un rumore di fondo che, al pari di un classico della musica pop, ci ricorda il dovere di essere grati di poter vivere in quest’epoca e nella parte più libera del mondo. Tuttavia, le scritte che appaiono sui muri sempre più spesso, che recitano “Das ist nicht unser Krieg” – “Questa non è la nostra guerra”, vergate in nero, con caratteri a volte marziali, a volte infantili, suonano come una dissonanza non voluta nella sinfonia della grande città.

Fortunatamente, spesso qualcuno interviene su questi messaggi lanciati verso il vuoto e corregge: “Das ist doch unser Krieg!” – “Invece sì, questa è la nostra guerra”. Qualche coraggioso aggiunge anche un “Fuck Putin” o “Stand with Ukraine”. In un momento così critico, è necessario infatti chiamare buoni e cattivi per nome, è doveroso immedesimarsi in un contesto di guerra, è irrinunciabile mostrare tutta la nostra riconoscenza al più alto dei frutti del progresso, la democrazia liberale.

Non basta certo qualche slogan colorato a convincere una parte della società ormai perduta, che si è mostrata sabato scorso, il 25 febbraio, in tutto il suo tetro splendore davanti alla Porta di Brandeburgo. In 13.000, secondo la polizia, o in 50.000 secondo gli organizzatori, manifestavano per la pace, per interrompere l’invio di armi e intavolare subito delle trattative di pace. Dal palco li arringavano Sahra Wagenknecht, controversa leader della sinistra parlamentare, e Alice Schwarzer, storica figura del femminismo tedesco (una tipica TERF, la definiscono i nativi del web). “È pericoloso illudere la popolazione che si possa trattare con qualcuno che, dopo aver aggredito l’Ucraina, aggredirà anche altri paesi europei”, ammoniva il ministro dell’economia Habeck – vox clamantis in deserto.

I racconti dei reporter che hanno assistito alla manifestazione non lasciano adito a dubbi: le persone presenti erano le stesse che negli ultimi due anni imperversavano per le strade blaterando di libertà, diritti basilari e Costituzione, i cosiddetti Querdenker, ovvero estremisti di destra. Non si può quindi sperare di convincere coloro che per due anni si sono rifiutati di capire da che parte stava il bene. Oggi come allora, questi individui si rifiutano di accettare delle incontrovertibili ovvietà: l’autorità lavora esclusivamente nell’interesse del singolo, la pace si ottiene solo al termine di una guerra, i diritti, compreso quello di avere un’opinione, ci si guadagnano garantendo la propria lealtà alla comunità.

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Gli Scomunicati è una testata giornalistica fondata nel 2006 dalla giornalista Emilia Urso Anfuso, totalmente autofinanziata. Non riceve proventi pubblici.

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