Rubrica a cura della giornalista Susanna Schivardi e del Sommelier Massimo Casali
Evento dedicato al vino e alla sua evoluzione, occasione per degustare microverticali di almeno due annate, Life of Wine si è svolto il 23 ottobre a Roma, nell’incantevole cornice dell’Hotel Villa Pamphili, dove oltre 300 etichette e 200 vecchie annate hanno accolto un pubblico vasto, contando almeno 700 presenza fin dalla mattina.
Raccontare il vino non è mai ripetitivo, la varietà che esso offre, la qualità e soprattutto le variabili che si concedono ai palati di ogni sensibilità, aprono davvero uno scenario ineguagliabile, perché parlarne non è solo stappare la bottiglia e versarne il nettare, ma anche conoscere l’origine del prodotto, la terra da cui proviene, la storia dietro ogni cantina, dietro ogni volto, dietro le mani che raccolgono i grappoli e li selezionano.
Oggi ci siamo avvicinati a queste aziende proprio pensando a quanto lavoro per arrivare ai prodotti che siamo andati a degustare, e le bottiglie d’annata ancora di più raccontano questa storia, perché rendere un vino longevo, dargli quelle caratteristiche che lo facciano resistere negli anni e sconfiggere il tempo, significa un po’ relegare la sfera del vino all’eternità come farebbe un’opera d’arte che travalica i secoli per raccontarne la weltanschauung, un modo di vivere, una visione del mondo.
Nel farlo ci siamo ovviamente divertiti, e soprattutto rilassati, nello splendido scenario offerto dalla posizione immersa nel verde di una villa dai grandi fasti, la Villa Doria Pamphili, polmone della Capitale e paesaggio ampio, immacolato, che sovrasta una città sempre più caotica e stancante. Quale modo migliore se non trascorrere qualche piacevole ora tra la terrazza dell’Hotel e la grande sala dove i banchi di assaggio ci attendono, con tanti produttori pronti a raccontarsi.
Innegabilmente, le grandi regioni produttrici, e pensiamo al Trentino, al Piemonte, al Veneto, sarebbero le prime a catapultare l’attenzione del winelover, ma noi oggi partiamo dalla Sardegna, dove una tradizione ancestrale ha modellato produttori consapevoli di avere a che fare con una terra indomita, aspra, ruvida. All’entrata della grande sala incontriamo AgriPunica, che nasce nel 2002 con l’acquisto di un terreno di 170 ettari in due tenute, Barrua e Narcao, che daranno anche il nome ai vini. Ci troviamo nel Sulcis meridionale, zona molto bella, austera, soleggiata, e il vino denominato è IGT Isola dei Nuraghi riferendosi alle tipiche costruzioni della regione. I vigneti si compongono di 70 ettari di autoctoni affiancati da varietà internazionali, ma è qui che i rossi hanno effettivamente la meglio, dove grande sole e influenza del mare rendono i vini spessi e vigorosi. Giacomo Tachis, enologo toscano e creatore di questa bella realtà, insieme ad Antonello Pillone, ci ha visto lungo e AgriPunica nasce proprio dalla collaborazione della Tenuta San Guido e la cantina di Santadi, con l’obiettivo di elevare gli autoctoni ma anche dare rilievo alla Francia con il taglio bordolese di cui Tachis è maestro.
Da questo intreccio di forze nascono il Barrua e tre anni dopo il Montessu. Vini rossi di grande eleganza, tannino ben lavorato, grazie all’apporto dell’enologo attuale Giorgio Marone. Il Barrua è frutto di un taglio bordolese con un’aggiunta di Carignano, e oggi abbiamo due annate, la 2010 e la 2018, con le dovute differenze, come la longevità e la proiezione al futuro della 2018, relativamente giovane ma già pronta. Per la 2010 sentori di speziati come pepe, la liquirizia vigorosa e il mirtillo macerato si distingue sul finale. Con il Montessu abbiamo sempre un taglio bordolese ma con aggiunta di Syrah in minima percentuale per rinvigorire l’acidità, ma è la fermentazione malolattica a conferire morbidezza al vino che matura 15 mesi in barrique di rovere francese. Anche qui incontriamo spezie e liquirizia, con prevalenza di cappero, rosmarino e pepe. Il bianco Samas, 2021, ci stupisce con il suo blend di Vermentino, Malvasia e Chardonnay, sottoposto a crio macerazione, il vino affina sulle fecce per circa 40 giorni per poi passare all’acciaio per 2 mesi e infine in cemento per almeno altri 3 mesi. Riflessi verdognoli, bouquet tropicale, note agrumate evidenti ci accompagnano ad un sorso morbido, salino e fresco.
Dal Sulcis ci avviciniamo verso nord, nei pressi di Nuoro per una zona che conosciamo, Mamoiada, e precisamente Orgosolo, famosa per i murales e area archeologicamente ricca. La barbagia qui regna incontaminata, un altopiano di 50 km quadrati di foresta primigenia di lecci fra le più estese di Europa. La valle è tappezzata di viti e ulivi, e proprio qui nel 2006 diciannove produttori si mettono insieme per conferire le uve e produrre il vino di Cantine di Orgosolo. Non c’è altri che il Cannonau in questo angolo di mondo, in 24 ettari condotti per produrre 325mila bottiglie l’anno. Avventura iniziata per gioco come ci racconta uno dei soci, da un corso di aggiornamento organizzato in paese. Già nel 2008 sono al Vinitaly dove ottengono dei riconoscimenti e proseguono raggiungendo sempre bei risultati grazie alla competenza del loro giovane enologo, Angelo Corda. Non manca tra queste file competenza in fatto di coltivazione, conoscenza profonda del terroir e, come amano sottolineare, la cura della selezione manuale delle uve, la resa per ettaro molto bassa e l’attenzione speciale alla potatura. Bellissimo sapere che qui ci sono piante ancora molto vecchie, anche di 100 anni, e che l’Urulu, loro vino di punta figlio della località omonima, primo vino prodotto e nato accanto a interessanti reperti nuragici, dove è stato ritrovato quello che per gli esperti rappresenterebbe un taste-vin ante litteram. L’Urulu viene normalmente regalato ai centenari della zona, e qui se ne contano ben quattro!
Tra i vini più giovani il Neale, che in dialetto significa leale, ed è prodotto da uve Cannonau e Bovale, che in piccola percentuale regala colore e acidità. Piace molto agli americani per la facile beva a tutto pasto. Luna Vona ci attira per il nome, che significa bella luna ma è anche un augurio per le donne in attesa. Primo vino biologico, pluripremiato, Cannonau in purezza e maturazione in legno di castagno. Bellissime ci colpiscono le cassette in legno da regalo realizzate dalle giovani artiste del posto in omaggio ai murales che riempiono di gioia e festa la città, attirando turisti da tutto il mondo.
Abbandoniamo la Sardegna per arrivare all’estremo nord, in Valle d’Aosta, con l’azienda Piantagrossa, nella DOC di Donnas, di cui possiede 4 ettari. Dalle radici di un maestoso ippocastano, vissuto qui per ben 396 anni, nasce la cantina che col suo nome commemora la grandiosa pianta poi abbattuta, grazie all’idea di Luciano Zoppo Ronzero, erede delle viti paterne proprio alle spalle di questa bella località. Qui siamo vicino al Piemonte, e qui vive il Nebbiolo Picotendro, che in queste pendenze moreniche assume un carattere molto vigoroso, statuario, importante. Andiamolo a scoprire. Ben 4 annate, 2015, 2018, 2019, 2020 di Dessus, che in francese significa “sopra”, ma il nome deriva dalla località in cui sono i vigneti a 600 metri, Ronc de Vacca Dessù, che scrivere per intero non sarebbe stato opportuno, quindi diventa Dessus. Non da ultimo in onore al coraggio con cui si raggiungono i vigenti più alti e ripidi. Si presenta generalmente rosso rubino tenue con unghia granata, la 2015 si vanta di questa caratteristica, variando su un mattonato acceso. In evidenza al naso la ciliegia e il lampone e in bocca gran coerenza, grazie anche ad un tannino di qualità. La 2020 rispecchia un’annata molto calda, la 2019 molto simile, raggiunse i 40 gradi, e presenta già un’evoluzione interessante. La 2018 è un’annata che ha fatto paura un po’ a tanti produttori, ma le uve hanno retto, grazie alla sapienza di piante vecchie anche 60 anni. Con la 2015 troviamo una buona bevibilità, la freschezza che si distingue e la parte fruttata sorretta da una buona acidità, molto longeva ed elegante. La seconda bottiglia dell’azienda è la 396, come gli anni della pianta, 90% Picotendro e altre varietà autoctone, per un rosso rubino trasparente e aranciato, presenti piccoli frutti di montagna e un finale in bocca caldo e rotondo, vino finemente tannico ed equilibrato.
Spostiamoci sulla costa adriatica, per toccare l’entroterra anconetano, e precisamente l’azienda Santa Barbara di Stefano Antonucci. Una bella verticale di Verdicchio di Jesi, Le Vaglie, ci concediamo la 2010 e la 2005. Entrambe le annate sprigionano le caratteristiche tipiche del Verdicchio, vinificato in acciaio, dalle note agrumate alla rotondità delle mandorle fresche, con un naso esplosivo di frutta gialla e doni floreali, nella 2005 tutto questo si accentua con un colore giallo carico, un naso più rotondo e meno acidità al gusto, freschezza attenuata dagli anni ma bello spessore da vino bianco importante e ben abbinabile a pesci elaborati.
Degradiamo verso le colline teramane, per andare a trovare la cantina Faraone, che a partire dagli anni ’30 coltiva Montepulciano, Passerina e Sangiovese e da qualche tempo anche il Pecorino. Dagli anni ’70 imbottiglia i propri vini da uve di Montepulciano d’Abruzzo, Cerasuolo d’Abruzzo, Trebbiano d’Abruzzo, che poi rientreranno dal 1995 nella sottozona riconosciuta colline teramane. Infine, grazie all’impulso di Giovanni Faraone viene riconosciuta la prima Docg in Abruzzo, Colline Teramane per il Montepulciano, e sono loro i primi a spumantizzare con metodo classico la Passerina. Con Federico Faraone, presente oggi all’evento, siamo alla terza generazione di gestione dell’azienda, assaggiamo un Trebbiano Teramano, condotto in biologico, con aggiunta molto bassa di solfiti solo alla fine della fermentazione, note fumé e vaniglia, sprigiona col tempo l’idrocarburo e promette almeno sette anni di longevità. Dalla 2017 che esprime una raffinata eleganza, grazie a frutta candita e dolcezza nel finale, per salire a 2019 e 2021 che persuadono con ottimo spessore gustativo, la sferzata di salinità, piacevole l’acidità che apre alla freschezza. Astringente e verticale, una beva vigorosa e senza indugi.
Rimanendo in tema di Teramano, arriviamo alla Tenuta Cerulli Spinozzi, anch’essa orientata all’esaltazione delle uve denominazione Colline Teramane, che in tre declinazioni differenti “raccontano l’anima artigiana, forte e gentile di un sorprendente Abruzzo”. La vicinanza al Gran Sasso rende queste uve molto verticali, il carattere calcareo dona una mineralità sassosa, per un’azienda che sprofonda qui le sue radici dal ‘600, fino al secondo dopo guerra quando si instaura la cantina. Come la conosciamo oggi risale al 2003, e il 2004 battezza la prima vendemmia. Oggi abbiamo 4 annate di Pecorino, Cortalto Colli Aprutini IGT di cui andiamo ad assaggiare l’annata 2018, da uve che crescono a 300 mt slm., senza stress termici grazie al fresco della montagna vicina a riparare i frutti dal caldo torrido. Passa 8 mesi sulle fecce in acciaio, e senza fretta se ne sta in bottiglia fin quando non è pronto. Notiamo la sua grande capacità di affinamento, un vino dalle note agrumate e mediterranee, in bocca attacca molto sapido, con gusto morbido e secco.
Tra le nicchie ne andiamo a scovare un paio. Pieve dè Pitti, a raccontarcela la titolare Caterina, architetto e appassionata di quella terra che lei definisce zona disagiata del senese, nel cuore delle Terre di Pisa. Dal 2008 Caterina gestisce la vendemmia e la cantina completamente da sola, spinta dall’amore per la terra che con la sua professione ha potuto approfondire, zonando i suoi ettari e andando a scoprire di avere un terroir con ben sei caratteristiche differenti. Quindi monovigneti e monovitigni la accompagnano, per quella denominazione Terre di Pisa finalmente riconosciuta e di cui si vanta. Del 2019 abbiamo Tribiana, un Trebbiano in purezza da tre vigne differenti con vinificazioni separate, da terreno sabbio-argilloso, risultato di una sperimentazione lunga sette anni, su un terroir normalmente vocato a Merlot e Sangiovese. Esprime note olfattive di media intensità, con male verde e fiori bianchi, si sottolinea la sapida fragranza sul finale, aroma vinoso e palato asciutto. Con il Cerretello DOCG Chianti Superiore facciamo un salto nella storia della cantina, prodotto da sole uve Sangiovese, Canaiolo e Malvasia Nera si affina in cemento e inizialmente solo dalle uve delle piante più vecchie. E’ questo il primo vino dell’azienda, molto legata al Chianti come gusto della memoria, che oggi trova piena espressione grazie all’apporto delle uve Sangiovese dei primi vigneti piantati dalla famiglia nel 2001.
A chiudere il nostro breve giro in questa tavola rotonda di annate ma anche di singoli assaggi che ci hanno comunque deliziato la mattinata, arriviamo ad una cantina che produce appena 2.000 bottiglie l’anno, il gioco tra cinque amici che in Piemonte, nella zona di Gattinara, per non perdersi di vista si mettono a produrre vino.
Si chiama La Stradina, come quella strada dove si giocava una volta quando ancora non c’erano i telefonini ad offuscarci la mente e la volontà, e con noi uno dei titolari, Roberto Petterino, che ci racconta “nel 1999 abbiamo piantato il primo vitigno, nel 2004 la prima vendemmia e nel 2008 il primo imbottigliamento, il nostro obiettivo è arrivare ad un livello di qualità altissimo rinunciando alla quantità e il vino esce solo quando è pronto”. Risale a sette anni fa una cantina nuova per un’azienda che non a caso è stata definita cantina-salotto, piccola ma adatta, qui la cura e l’amore per la terra è innegabile, con una gestione agronomica di pochi ettari che arrivano fino al Cru della zona “San Francesco”. Uno dei cinque amici si è laureato in Viticoltura ed Enologia, puntando ad ampie conoscenze, dall’utilizzo di lievito fresco alla microvinificazione per ottimizzare ciascun vigneto. Uve Nebbiolo ovviamente lavorate con attenzione, dalla raccolta manuale ai rimontaggi in cantina, almeno sei mesi in acciaio sulle fecce fini e poi in barrique mai di primo passaggio. L’affinamento per due anni per il gattinara DOCG e di tre anni per la Riserva. Tra le eccellenze assaggiamo il Rusèt, Gattinara Riserva 2017, che è il soprannome del paese del nonno di Giorgio – uno dei cinque amici – un colore rosso rubino deciso, al naso molto intenso, una memoria di erbe officinali accompagnata da frutta rossa matura. Un sorso armonico del tannino ben lavorato e una certa sapidità finale, molto persistente e asciutto.
Ricordiamo che Life of Wine nasce nel 2010 da un’idea di Studio Umami, agenzia specializzata a livello nazionale in comunicazione ed organizzazione di eventi enogastronomici. Per la selezione delle cantine partecipanti l’evento si avvale dal 2019 della collaborazione del giornalista Maurizio Valeriani.
***Foto e video originali di Susanna Schivardi – consulenza di Massimo Casali per la degustazione
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