Rubrica a cura della giornalista Susanna Shivardi e del sommelier Massimo Casali
Metti un bel pezzo di terra, in Piemonte e precisamente in provincia di Alessandria, siamo a Pozzol Groppo, dove Paolo e la sua famiglia hanno trovato la quadra, dopo una vita dedicata a ben altro. Lui stanco del settore industriale cambia destinazione e sceglie un posto, rurale nel vero senso della parola, dove non esiste antropizzazione, i campi si alternano a boschi, vigneti e prati e il paese consiste in una strada dove nemmeno trovi il bar dello sport, ma solo il castello a ricordare i suoi fasti feudali. Sullastradadelvino di Massimo e Susanna stavolta incontra un pioniere della visione olistica in vigna, un filosofo del vino, un sognatore romantico con forti basi scientifiche che a breve troveranno conferma, grazie ad alcune collaborazioni di cui non sveliamo i dettagli. Paolo Carlo Ghislandi, titolare dell’azienda I Carpini, ha disegnato la sua vita tutta intorno a questi ettari di terra, dove non solo cresce la vite, ma continuano il loro corso naturale anche i prati, i boschi, i frutteti, dove i microrganismi vivono e completano un cerchio che l’uomo non dovrebbe mai permettersi di spezzare.
LA STORIA
Alla fine degli anni ’90 si realizza un sogno, Paolo abbandona il suo vecchio impiego e si lancia definitivamente nella viticoltura, insieme ai genitori, riuscendo poi a coinvolgere il resto della famiglia. Nel 1998 nasce l’azienda, partendo dai canonici tre ettari per ampliarsi all’oggi a dieci ettari, con l’obiettivo prossimo di raggiungere i quindici, per una produzione di 40/60 mila bottiglie e il focus di arrivare a 100 mila ma non di più. Per evitare le logiche commerciali e le ansie da prestazione di quelle aziende che arrivano al milione. Si rivolge ad un pubblico attento e sensibile, una nicchia di clienti che diventano spesso amici, nell’ottica che il vino viene o non viene, non va forzato.
Paolo desidera misure umane, come le chiama lui, quelle che ti permettono di avere un contatto diretto con la produzione, una visione di insieme che non richieda algoritmi o grafici per raccogliere dati altrimenti intellegibili. Nel tempo Paolo, digiuno di agronomia ed enologia, non si è perso d’animo e si è immerso nei libri per conoscere da vicino il terroir, la vite, l’uva, la natura in generale, scoprendo che essa interagisce con ogni essere vivente, dai macro ai micro organismi che popolano il nostro pianeta, ogni insetto, ogni filo d’erba, ogni patogeno hanno un senso nella visione globale dell’ecosistema terra, e quello che lui ha sempre cercato di creare è proprio una biosfera che possa raccogliere i benefici di una natura che viene lasciata ai suoi ritmi e alle sue regole, dove l’uomo sia inserito nel sistema ma non si imponga come onnipotente e sovrano. Fare un passo indietro è la sua filosofia, da quando scopre l’olismo capisce che finora il sovrasfruttamento delle risorse non fa che impoverire la terra, “a che vantaggio diserbare e poi fertilizzare un terreno, quando la terra già da sola si autoalimenta, conosce i suoi limiti e reagisce come meglio crede”. Laddove l’uomo crea un vuoto, ci spiega con molta disinvoltura, la natura riempie con qualcosa di molto più aggressivo, più invadente, per far capire chi comanda. Queste sue posizioni, potremmo dire, più che innovative, meglio progressiste, lo rendono un avanguardista, uno che si pone domande e cerca risposte.
Non mancano critiche e posizioni contrarie alle sue visioni, chi della vecchia scuola si trincera dietro barricate ormai superate o per lo meno atrofizzate, non mancano i confronti di cui Paolo fa tesoro, circondandosi di validi collaboratori che ogni tanto possano frenare i suoi slanci “emotivi”. A raccogliere le redini di tanto lavoro il figlio, Riccardo, anno 1995 e nativo della terra e soprattutto dell’atmosfera che circola in azienda. Finalmente, dopo qualche esitazione, si appassiona al vino, come ci racconta il padre, all’oggi si dedica a tutta la filiera di controllo in vigna e raccolta, per sua indole ama gli schemi e i processi di trasformazione che avvengono tra i filari, mentre Paolo si occupa di organizzazione e burocrazia senza entusiasmo ma non toglie tempo al vino, che vuole fare lui in prima persona, e nel periodo di vendemmia rimane in cantina e sovente ci si addormenta, steso accanto alle botti, come un padre che aspetta un figlio, “ed è tutto molto bello ogni volta”.
IL TERROIR
Perché proprio qui? Paolo con parole cariche d’amore ci spiega che la scelta di un territorio non è mai casuale, e ce lo spiega facilmente disegnandoci un paesaggio di rara bellezza, dove ti alzi con i vigneti fino a 400 metri sopra il mare, in una posizione da cui di lì a poco sopra si può scorgere il mar Mediterraneo, dove vallate e picchi si alternano, buttando l’occhio in direzione della Liguria, da cui arriva quel vento che dona fresca freschezza alle vigne. Verso ponente lo sguardo giunge al grande arco alpino che si erge come una barriera e protegge da incursioni termiche indiscrete. Verso oriente lo stupore della dorsale appenninica che coinvolge in basso la pianura padana e tutto digrada con dolcezza e vastità.
Un terroir incredibilmente ricco con sedimentazione di argilla rossa, argilla bianca, marna grigia, gesso e calcare raccontano una storia di milioni di anni di quando in queste zone c’era il mare e per questo ancora trovi conchiglie e fossili, vecchi reperti che spiegano il sapore piacevolmente sapido dei vini qui prodotti. Siamo in Piemonte ma in un cuneo di terra dove si impone un clima mediterraneo per effetto di fattori che procurano venti umidi e salmastri, grazie ai quali il Timorasso assume toni da vino mediterraneo più che nordico. “Qui non hai solo vigne, vigne, vigne, ma anche bosco, prato, frutteti e questo fa tanto bene ai vigneti” – conclude Paolo.
I VIGNETI
“Quando abbiamo piantato le vigne, siamo partiti da zero e lasciato boschi, prati intatti, con erba medica quindi super azotati e fertili e soprattutto non diserbati! Quindi le vigne sono state piantate una alla volta, la prima di Barbera, non per mancar di rispetto al Timorasso che ha fatto emergere i colli Tortonesi dal dimenticatoio mondiale, ma la Barbera in queste parti ha il primato beneficiando di un territorio estremamente vocato, generoso in mineralità che regala al vitigno un’acidità importante e le escursioni termiche un’abbondanza di frutto al naso. Vini di grande eleganza, e di straordinaria longevità superando anche quelli che longevi lo sono da sempre di fama – continua Paolo – si susseguono Timorasso, poi Albarossa, e di nuovo Timorasso per gli spumanti. Ogni vigna è ragionata e pensata, perché vinificata da sola in vasca possa dare un’etichetta specifica”.
Le vigne hanno nomi propri suggeriti direttamente dai membri della famiglia di Paolo, una scommessa che accoppia ciascuna caratteristica enoica a quelle umane e personalità diverse. Pare abbia funzionato, aiutato da parenti di buona indole!
DEGUSTAZIONE
Arriviamo però alla degustazione, nodo centrale della nostra esperienza in Piemonte di oggi, con Paolo, eccentrico e prestigiatore con le parole, in cui azzardo e perspicacia si mescolano a capacità visionaria e applicazione.
Apriamo lo spumante, Chiaror sul Masso, dall’etichetta ancora stile borgogna, “in linguaggio netflixiano una seconda stagione”. Qui abbiamo a sorpresa un metodo Charmat lungo, ancestrale che si veste di un bel giallo paglierino brillante e bollicina fine. Un vino particolare e dal successo immediato e bello. Figlio della vendemmia del 2008-2010, primo in assoluto di Timorasso, parte da 24 mesi per passare ai 30 sui lieviti, “un vino che o lo ami o odi”. Il Timorasso seleziona molto i palati, e predilige quelli avvezzi a mineralità e durezze. In questo vino Paolo ha tentato di preservare il varietale dall’attacco dei lieviti. Per questo spumante Paolo ha scelto uno charmat lungo di 18 mesi sulle fecce nobili lasciando lieviti e zuccheri a fare il loro gioco, e un’ulteriore rifermentazione di 12 mesi in autoclave.
All’occhio si presenta con bel giallo paglierino quasi dorato, lo definiremmo brillante. Perlage finissimo e persistente. All’assaggio spiazza e spezza le attese, perché sentiamo rapido passaggio di pasticceria, un’ortofrutta appena accennata, dominano la polvere, il gesso, la cipria, la mineralità declinata su una bollicina. La grafite esplode, come la matita per gli occhi delle donne, e la freschezza che accompagna. La dolcezza percepita di miele d’acacia non è attribuibile al residuo zuccherino, ma ritroviamo questo terziario che è propriamente di gusto. L’effervescenza compatta riempie la bocca e la finezza della bollicina è molto piacevole. Accarezza tecnicamente il Satin ma si sposa con il Brut.
Secondo vino che apriamo è Rugiada del Mattino 2020 di uve Timorasso, il primo in produzione, che finalmente ci avvia alla scoperta di questo vitigno da sempre protagonista della nostra curiosità. Paolo non ha entry level nella sua produzione ma si presenta subito con i Cru, che semplifichino le complicatezze del vino, mantenendone i virtuosismi senza entrare troppo nel cerebrale come si rischia di fronte ad un Timorasso. Qui abbiamo un’uva raccolta e messa in vasca a 4/5 gradi. Un’estrazione con 2 o 4 notti sulle bucce, procedimento nel quale questo vino non si ossida, quindi macera ma diventa dorato senza intristirsi e mantiene intatta la sua freschezza. Dopo la macerazione, fermenta a bassa temperatura, le fecce devono amoreggiare col vino il più possibile. Finiti gli zuccheri a zero, si mantiene in batonnage su fecce nobili in acciaio per un anno. Dopo di che in bottiglia ai 12 mesi e ai 18 mesi sta sul mercato.
Il Timorasso è un vitigno “pessimo” tra i candidati per produzioni ad alte cifre. Anni fa i contadini se lo toglievano di torno motivo per cui in questa zona dove è super autoctono lui non ha resistito. Il Tortonese inoltre confina con Gavi, quindi era facilissimo produrre e vendere il Cortese ai vicini. Un vitigno spargolo che si asciuga presto, ama il ventilato ma non troppo, quindi spara gradazioni da paura, e fa a botte con le caratteristiche che si sono imposte sul mercato del bianco, che vuole un vino fresco, a gradazione bassa e di facile beva. Lui con i suoi 15 gradi sembra un brutto anatroccolo cacciato via da tutti. Il nome non ha aiutato negli anni, ma chi lo assaggiava pur godendone il gusto, ne disprezzava la gradazione troppo in là, e infine l’annata lo rendeva vecchio agli occhi del mercato. Una fatica enorme per cambiare un pregiudizio, impervia questa strada lungo la quale Paolo si è preso tante soddisfazioni. A Milano, alla fine degli anni ’80 ai tempi della barberazza da Trani e dei vini bianchi facili quando si mangiava cotoletta e risotto, finalmente sono arrivati i campani che hanno portato i bianchi di greco di tufo e fiano, buonissimi e minerali. Paolo in quell’occasione si è innamorato di vini bianchi che al nord ancora non c’erano. L’incontro a metà degli anni ’90 con i primi vini Timorasso e la possibilità di fare un bianco minerale del nord, di struttura e da invecchiamento ricco di terziari lo ha stimolato a salvaguardare anche questa varietà dalla quale oggi si ottiene probabilmente il più grande bianco del nord per non dire il più interessante in tutta Italia. Nel calice un giallo dorato, dai profumi decisi di mediterraneo, il salmastro, la bacca, erbe officinali, rosmarino, salvia e alloro. In bocca la pesca gialla, la frutta dominata dalla mineralità.
La persistenza elegante lo accompagna per tutta la serata. Decisamente sapido e da abbinare con pan carré, burro e acciughe sotto sale, esplode. Altrimenti con antipasto di pesce generoso oppure ostriche Royale. Ci prefissiamo di attendere almeno 20 anni per aprirlo, perché col Timorasso il tempo è gentile e lo evolve.
Terzo vino nel calice è il biglietto da visita dell’azienda, la Barbera, Sette Zolle 2015, il vino del cuore di Paolo, “per affinità elettiva” come dice lui. Concepita e lavorata come una signora, in guanti bianchi, trattandola come i più grandi vignaioli fanno i loro più grandi vini. Si segue una selezione fortissima sui grappoli, una fermentazione spontanea, dall’occhio alla bocca, questa Barbera si vanta di una forza elegante e leggiadra, senza farne mostra. L’idea di Paolo si discosta leggermente dall’inclinazione generale di proporre una Barbera giovane, specialmente in Piemonte. In realtà la Barbera per sua natura ha un’acidità elevatissima e berla giovane è come “prendere questa donna del futuro quando è una ragazzina di 14 anni, bellissima, e prostituirla, a 16 sarà morta. Aspettando invece che cresca, diventerà una donna meravigliosa, come la 2015 che abbiamo oggi, una donna affascinante che non si è nemmeno messa l’abito bello ma è uscita direttamente in tuta”. Il linguaggio di Paolo è accattivante e ci descrive il vino in maniera dinamica e moderna. Tornando al vino l’acidità si accompagna alla frutta con immediatezza, una bottiglia per gli amici a cui si vuole bene. Questo vino fa solo acciaio, non passa per il legno, quindi risulta un prodotto vicinissimo alla terra, alla vigna. All’occhio si offre con colore rosso rubino bellissimo, e al naso ci entusiasma con una grande intensità, profumo di avvolgenza indicibile. Percepiamo un’arancia sanguinella, la mora potente, le bacche di sottobosco e sul finale un mirto intrigante. Le spezie ci sorprendono senza preavviso, con salvia, alloro e menta. In bocca la “signora” di Paolo si fascia di tutta la sua eleganza. I 15 gradi alcolici non spaventano, ma si integrano con una freschezza vivace. Intenso e persistente si abbina per forza di cose a bistecche di manzo alla piastra, zuppa di legumi, piatti generosi della tradizione piemontese.
UN SORSO DI FILOSOFIA…
Salutiamo Paolo suggestionati da varie riflessioni che accompagnano la nostra chiacchierata “il vino va apprezzato come è nato, per convivialità, un lubrificante sociale meraviglioso, intorno ad una bottiglia le persone perdono il senso del tempo e attenzione con lucidità – come diceva Socrate – se bevuto a piccoli sorsi”. Paolo contrassegna le sue bottiglie con citazioni da lui cercate e trovate per esprimersi sinteticamente ma con efficacia. Il vino è un collante dell’umanità intera da millenni, se non fosse esistito probabilmente il genere umano si sarebbe estinto. Le etichette, frutto di una sensibilità come quella di Paolo, raffinata, sono la terza stagione, forse la definitiva, in linea con una comunicazione adatta a tutti. Notti trascorse a scovare il trafiletto giusto, il pensiero di un autore all’interno di quella determinata poesia, che con le parole giuste esprime un concetto a favore del vino e dei suoi effetti, o la relazione dell’autore stesso col vino pur sempre declinato all’amore, o all’arte che è essa stessa un’altra forma di innamoramento verso quello che esiste. Nel fare le etichette, Paolo ha pensato al legame profondo tra la vigna e il calice, un’emozione che parte dal territorio e si trasforma in nettare. L’approccio è tattile attraverso l’etichetta e poi passa agli altri sensi. Mancava però l’anima che va predisposta alla comunicazione con la propria mente e questo la poesia lo fa benissimo. Dal nome del vino, all’etichetta tattile e visiva fino al liquido, il tutto fa parte di un disegno immenso nella mente di chi concepisce e chi beve. Lasciamo quindi, a chi vorrà soffermarsi, l’interpretazione delle tante etichette e dei nomi dati ai vini, frutto di una passione e di una fantasia fuori dal comune. Grazie a Paolo e alle sue parole che in un pomeriggio ci hanno aperto nuovi scenari.
Dal Piemonte con Massimo Casali per la degustazione e Susanna Schivardi per l’intervista – foto originali dell’azienda.
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