Di Daniel Abruzzese
La pandemia e le misure atte a contenerla hanno rappresentato senza dubbio la fine di un mondo. Ma le tensioni sociali fanno pensare che la nuova realtà sia tutt’altro che migliore rispetto al passato. E all’orizzonte si profilano catastrofi naturali e nuove epidemie. Sembra che gli eventi degli ultimi due anni abbiano scoperchiato un vaso di Pandora. E come nel mito, la sorgente delle mostruosità non è probabilmente nella realtà esterna.
Due decenni di terrore
“Non possiamo non dirci cristiani”, andava di modo dire una ventina d’anni fa, quando gli attentati di matrice islamica sembravano mettere in discussione l’esistenza dell’Occidente. In questa frase così ricorrente nel dibattito politico, più che un’adesione ad una dottrina, risuonavano le tendenze millenaristiche che inquietavano la società all’ingresso nel nuovo millennio. La dissoluzione della Cortina di Ferro, lungi dall’essere stata il trionfo del mondo libero sull’impero del male, ci aveva lasciati sospesi in un territorio sconosciuto, in cui nessun ideale e nessuna escatologia ci potevano più essere di aiuto. Un territorio dove bastavano il passaggio da un secolo all’altro non registrato correttamente da una macchina, un brevetto di volo concesso distrattamente ad un mussulmano, o una bottiglietta di shampoo caricata su un aereo a mettere in discussione una civiltà ed i suoi valori. Valori che, se ce lo avessero chiesto, non avremmo saputo definire, ma che potevano essere esportati con ogni mezzo verso paesi lontani. Deve essere stato allora che gli eventi hanno iniziato a prodursi ad una tale distanza da noi che hanno smesso di accadere. E per quanto i media si affrettassero ogni volta a dichiararne il carattere epocale, i fatti perdevano consistenza, fino a che anche le migliaia di morti collaterali all’esportazione di libertà e democrazia divennero dei numeri (e come i morti sarebbero stati ridotti ad un fattore matematico per legittimare scelte politiche lo avremmo visto da lì a pochi anni).
All’orizzonte, si prospettavano poi catastrofi naturali, malattie impossibili da debellare, crisi finanziarie, flussi migratori di dimensioni mai viste, nuove forme di fascismo. Ma in realtà, la nostra quotidianità era fatta di abitudini che si ripetevano stancamente e che neanche nella loro rappresentazione sui social media acquistavano uno spessore. Le imposizioni dall’alto diventavano mano a mano sempre più invasive, mentre la tecnica cambiava il nostro stile di vita solo superficialmente, senza liberarci dalle nostre paure ataviche, la malattia e la morte.
Due decenni di noia
«Sa di cenere», scoppiava in lacrime davanti al suo piatto preferito Kirsten Dunst in Melancholia. E come la protagonista del film di Lars von Trier, molti di noi sono andati incontro al 21 dicembre del 2012 con il sorriso sulle labbra: qualcuno con sollievo, i più con un sorriso sarcastico. Perché il sarcasmo è diventato più o meno allora il sentimento unificante della società del nuovo secolo. Ad ogni cosa che sembrasse strana, minacciosa, stupefacente, insomma ad ogni fenomeno che non eravamo in grado di cogliere nella sua totalità, si opponeva una battuta cinica, abbastanza banale perché la capissero tutti. Particolarmente ricorrente era quella che invocava l’arrivo di un asteroide per ristabilire un ordine universale, dato che né la Provvidenza né il darwinismo sociale avevano funzionato a dovere. Il pendant all’asteroide era la natura che doveva finalmente far pagare il conto all’uomo, creatura che, come un virus, infestava il mondo da millenni e che si era ormai spinta troppo avanti. Al netto delle psicopatologie personali che potevano nascondersi dietro a questi desideri, essi rivelavano principalmente un terrore della fine e la fretta di anticiparla per non farsi cogliere impreparati. Con queste premesse, sarebbe bastato un virus dalla mortalità dello 0,25% a scatenare il panico come davanti alla calamità più grave della storia.
Il virus del secolo e l’apocalisse di cartone
L’eccezionalità dei primi lockdown ha rappresentato il cambiamento radicale che molti attendevano: finalmente la storia rientrava di prepotenza nelle nostre vite e l’interruzione della routine sembrava porre fine ad un’epoca e darci un attimo di respiro per tornare a riflettere. Era arrivata la tanto sospirata vendetta della natura contro l’uomo. E si realizzava un’utopia che il cinema hollywoodiano aveva prefigurato da decenni: i “potenti”, con l’aiuto della scienza e della tecnica, proteggevano l’umanità dalle forze della natura. Dopo tutto, era per questo che le generazioni più giovani erano scese in piazza negli ultimi anni: perché i governi e le grandi imprese intervenissero per fermare la corsa del pianeta verso il baratro.
L’uomo prometeico domava le infide forze della natura: la proiezione psicanalitica era talmente perfetta da provocare un cortocircuito. Il singolo e il governo, tradizionalmente soggetti ben distinti, se non confliggenti, si fondevano in un’unica entità dagli interessi comuni, come nei totalitarismi del passato. La libertà non era più una condizione naturale a cui ogni individuo dovrebbe aspirare, ma un premio elargito dall’alto, il cui presupposto sono rinunce e regole da rispettare.
Non ci ha insospettito che, fra le prime regole imposte nel marzo del 2020, ci fossero il divieto di confortare i malati, di prendere congedo dai defunti e l’abolizione della stretta di mano, usanze con un valore simbolico indiscusso che durava da secoli. Sarebbe stato per poco, ci avevano convinto, e tutto sarebbe andato bene. Il clima di sospetto e l’aggressività che permeavano il quotidiano ci suggerivano però tutt’altro.
Intanto, la natura continuava a seguire i propri ritmi, riprendendosi spazi che non erano più suoi e regalandoci non di rado spettacoli entusiasmanti. Con risultati esteticamente molto peggiori, anche le autorità e i grandi gruppi finanziari proseguivano secondo i loro ritmi, continuando sulla linea che ne aveva contraddistinto l’azione negli ultimi anni: una sempre maggiore gerarchizzazione della società, un controllo sempre più stringente sul singolo, una totale arbitrarietà nelle decisioni.
Al più tardi nell’inverno del 2020 è stato evidente che tutto era andato nel peggiore dei modi, anche a livello epidemiologico. Le tensioni sociali, catalogate prima come atomizzazione, erano diventate terrore verso l’estraneo, che non si esauriva nel sarcasmo, ma sfociava spesso nel disprezzo e nello scontro aperto. E ancora una volta si erano delineate due fazioni nettamente distinte: scientismo contro superstizione, negazionismo contro responsabilità sociale, sani contro infetti, vaccinati contro no vax. La dialettica, che aveva da un po’ abbandonato l’ossessivo dibattito scientifico sui media, aveva lasciato orfani anche gli intelletti della gente comune.
Il termine della storia
Sentirsi alla fine della storia significa anche interpretarsi come il fine di tutti gli eventi precedenti. Non solo, ma l’illusione di avere una visione esatta della storia (illusione favorita dalla sommaria rappresentazione dei documentari divulgativi) ci permette di scagliarci contro un qualsiasi fenomeno del passato con la protervia con cui faremmo sui social media. Non a caso, i toni dei movimenti Black Lives Matter e della Cancel Culture riecheggiavano quelli degli scontri fra gli sceriffi da balcone e gli indisciplinati, o fra complottisti e scientisti, e via dicendo. Identica la visione dualistica, incapace di intravedere sfumature fra bianco e nero, fra uomo e donna, fra transgender e cisgender – anzi, le categorie razziali e di genere alla base di queste nuove visioni del mondo sono molto più ferree di quanto mai lo sia stata ogni categorizzazione imposta dall’alto. Ma soprattutto, emerge in questi movimenti un’assoluta fede nell’azione delle autorità: starà a loro garantire l’uguaglianza, il riconoscimento delle identità sessuali, il ristabilimento della giustizia. Joe Biden ha già provveduto a pacificare la coscienza collettiva americana, reinventandosi come portavoce del Black Lives Matter. E neanche le multinazionali si sono tirate indietro all’appello, proponendo un restyling a base di bandiere arcobaleno, o con altri colori inclusivi.
Panta rhei
Ovviamente niente di tutto ciò intacca minimamente il problema di una società che di per sé non può tollerare pari diritti per tutti. Ma alla distruzione simbolica di monumenti e convenzioni linguistiche viene assegnata la speranza di traghettare l’umanità verso una nuova epoca, irrigidita da norme e codici etici, in modo che non resti spazio né per gli imprevisti, né per ulteriori evoluzioni. Il che assomiglia molto alla rivoluzione verde che la maggior parte delle forze politiche e dei gruppi finanziari ha iniziato a proporre ossessivamente da qualche mese.
Come ci hanno dimostrato gli eventi della pandemia, più si fa evidente la frattura fra le convinzioni, magari surrogate da modelli matematici, e la realtà, più la voce di chi esercita il potere si fa isterica e delirante. “Non ti vaccini, ti ammali, muori”, abbiamo sentito dire qualche tempo fa dal Presidente del Consiglio. Questa banalità al limite della menzogna ben rispecchia il terrore di chi sta perdendo il controllo della situazione. Il lettore scuserà dunque a chi scrive certe semplificazioni: derogare alla logica è forse lo stigma di questo periodo storico. La natura, questa astrazione che sempre più spesso vorremmo chiamare in causa, sembra essere l’unico elemento ancora in grado di seguire un principio logico. E dunque, se proprio vogliamo perderci in speranze apocalittiche, è bene ricordarsi del detto biblico: la fine dei tempi, se dovesse arrivare, lo farà come un ladro di notte.
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