Intervista di Michael Hesse
Lo storico Volker Reinhardt sulla devastante pestilenza del XIV secolo, che non ha sostanzialmente cambiato il corso della storia – e alla quale si può trarre un insegnamento concreto per la pandemia di Coronavirus.
Professor Reinhardt, l’umanità, nel 1348, fu sorpresa dalla peste in modo simile a quello che accade a noi con la pandemia? Starei per dire che lo fu persino molto di più. Noi viviamo pur sempre in un’epoca che viene dopo l’influenza suina, l’aviaria e l’esplosione della Sars. La sensazione diffusa di una minaccia che ci sovrasta è stata sempre presente. Negli anni 1347/48/49 nessuno metteva in conto una tale esplosione. Un flagello di tale misura era talmente lontano che neppure la memoria collettiva lo registrava più. Nel VI secolo d.C., cioè nella cosiddetta “tarda antichità”, c’è stata, è vero, una analoga epidemia di peste, dopo però niente di veramente confrontabile a essa. E bisogna dire che questa improvvisa morte di massa arrivò in modo assolutamente inatteso. L’effetto choc deve essere stato unico, incomparabile.
Dove scoppia la pestilenza?
Le navi arrivano all’inizio di ottobre a Messina dalla Crimea. L’equipaggio scende a terra e subito si comincia repentinamente a morire. Queste navi proseguono la navigazione, ci si astiene dall’isolarle. Risalgono la costa tirrenica e, all’inizio di novembre, sono a Marsiglia. E a quel punto scoppia la peste in Francia.
La pandemia del XIV secolo si propaga con la stessa velocità di quella del XXI secolo?
Esistono già delle rotte efficienti, e ci sono vie di comunicazione delle notizie, che non sono rapide come quelle di oggi, però un corriere veloce poteva coprire la distanza tra il Sud Italia e il Nord Italia in quattro, cinque giorni. Ci si poteva fare anche in tre o quattro giorni, se si spronavano i cavalli fino farli stramazzare. Questo è stato uno degli enigmi più grandi: ciò che accadde in Sicilia deve essersi propagato come un fuoco indomabile. Inoltre la cosa era troppo nuova e tremenda. E tuttavia in pratica non furono presi provvedimenti.
Come procedettero le cose?
La peste raggiunse l’Italia centrale e anche quella settentrionale. In un unico posto, a Milano, si reagì e si presero precauzioni, cioè la città fu provvista di scorte e completamente isolata. Una città di circa 150.000 abitanti restò libera dalla peste.
Perché proprio Milano?
La spiegazione è sia sociale sia economica. Nelle altre città governano delle oligarchie mercantili, famiglie ricche con interessi finanziari molto estesi, soprattutto Venezia, dove il commercio all’ingrosso ha prodotto la favolosa ricchezza di questa città E questa gente non ha alcun interesse a interrompere le relazioni commerciali. Che questo fosse un grave errore ci se ne accorse troppo tardi.
Le precauzioni adottate allora da Milano somigliano anche a quelle di oggi. Mostrano un comportamento attivo e non l’arrendersi al destino.
Ci fu una differenza eclatante. I cosiddetti esperti dell’epoca, medici, astrologi, teologi dicevano che era una punizione divina, che l’aria avvelenata era causata da una congiunzione sfavorevole dei pianeti sulla terra, e che dietro c’era un Dio punitivo. Se si accettava questa spiegazione in modo così grossolano non c’era verso di fare un bel niente. Le possibilità erano queste: si poteva lasciare che Dio agisse, avere fiducia in Dio, al massimo, si poteva chiedere perdono e misericordia.
A Milano il comportamento ha un orientamento differente; qui si parte dall’idea che si può fare qualcosa e si confuta anche la teoria dell’aria avvelenata. Perché avrebbe dovuto esserlo dappertutto. Ci sono degli esempi simili. Anche il papa di allora reagisce nel modo giusto, non ammette più nessuno in udienza, si isola e in questa maniera si protegge. Le giovani dame e i giovani uomini nel “Decamerone” di Boccaccio agiscono in modo analogo. Si trasferiscono in campagna nella loro villa, si fanno servire da persone scelte e non vedono nessun altro. La sana intelligenza umana fu più valida della teoria della medicina.
Come cambiò la vita sociale? Ci furono disordini e sollevazioni? L’ordine pubblico si dissolse?
E’ stato ad ogni modo un colpo pesante per il tessuto sociale. Molte cose vengono messe alla prova. L’ordine pubblico tuttavia non collassò, qui io sono di opinione diversa rispetto alla ricerca dei tempi passati. Si continua a votare, le cariche continuano a essere ricoperte. Si continua anche ad assumere incarichi artistici e a lavorarci. L’uomo è un essere vivente relativamente robusto. Il crollo dell’ordine sociale più volte citato nella letteratura specialistica non è dimostrato che sia avvenuto.
Quanto grandi furono le perdite?
Le medie dicono che tra il 25 e il 30 per cento della popolazione cadde vittima dell’agente patogeno. Anche in Cina, da dove proveniva il batterio, secondo le stime ci devono essere stati molti milioni di morti. In certe località dell’Europa ci fu un tasso di mortalità che arrivò al 75 per cento. Intere comunità religiose morirono. Nei monasteri le persone erano tante e vivevano gomito a gomito in uno spazio ristretto; quindi l’infezione ebbe migliori possibilità di diffondersi. Furono colpiti soprattutto i ceti inferiori, i poveri vivevano appiccicati.
E nel territorio dell’odierna Germania?
In Germania vi fu un tasso di mortalità relativamente basso che si calcola fra il 10 e il 15 per cento. Ma ci furono indubbiamente anche città in cui morì la maggioranza della popolazione.
Come appare la differenza tra città e campagna?
La città è uno hotspot, un punto caldo. Ma ci sono anche documenti che parlano di intere regioni che sono diventate deserte, fattorie abbandonate, campi non più lavorati. Alcune zone sono proprio prive di abitanti. Potenzialmente il tasso dei morti è più alto in città, perché in esse gli alloggi sono sovraffollati.
Oggi vediamo con quanta velocità precipitano in basso, nel favore dell’opinione pubblica, dei presunti eroi, per lo più politici. Quali eroi ci furono allora?
Il supereroe agli occhi della gente è il signore di Milano che agì brutalmente e intervenne senza riguardi. Ciò non vuole essere una lode dell’uomo forte. Ma immaginatevi oggi che una città o un Paese sia risparmiato dal Covid. Chi ne è politicamente responsabile sarà rieletto col 90 per cento di preferenze.
Quanto fu colpita l’economia?
La vita economica prosegue. Non ci sono informazioni che parlino di carestie. Queste avrebbero dovuto verificarsi immediatamente, poiché la situazione degli approvvigionamenti delle città è sempre stata difficoltosa anche in tempi normali. I generi alimentari divennero però più cari. L’economia alla fine resiste. Ciò dipende anche dal fatto che la peste infuria per meno tempo del Covid. Dura, di regola, non più di sei mesi. Tuttavia il salasso è grande.
Con quali conseguenze?
Proprio perché la gente modesta muore molto più del resto della popolazione, quelli che sopravvivono di questo ceto stanno meglio, la forza lavoro diventa poca e per questo per alcuni anni crescono i salari. E’ un meccanismo che possiamo osservare in tutte le epidemie fino al XVIII secolo. Quelli che prendono la terra in affitto adesso lo possono fare a condizioni migliori. Ciò irrita, naturalmente, i proprietari terrieri. I sopravvissuti hanno quindi un doppio beneficio: sono vivi e godono di un migliore potere d’acquisto.
La diseguaglianza viene ridotta dalla peste?
Un poco, almeno. L’effetto non dura troppo a lungo. Ma si ripete quando ritornano epidemie di peste. C’è anche un altro effetto.
Quale?
Un grande numero di famiglie muore, ne subentrano di nuove, parenti lontani, talvolta famiglie completamente nuove. Per esse, all’inizio, le cose sembrano molto positive, ma non a lungo. Questi parvenu provenienti dal niente sociale sono malvisti. Vengono respinti in modo relativamente veloce dalle vecchie élite. Questi parvenu non godono di congiuntura favorevole per molto tempo.
La pandemia fu una svolta epocale?
No. La reazione principale, che durò anche alcuni anno, è un rivolgersi al passato. La nostalgia è una reazione normale. Si diventa più conservatori. E’ come in Germania dopo la seconda guerra mondiale. Si è provocata una carneficina, e negli anni Cinquanta si gira un film dietro l’altro che ha come argomento la Patria (Heimat). Ci si vuole rifare a un passato che si presume migliore.
Dunque la peste non fu un punto di partenza per il Rinascimento?
Un collegamento diretto fra peste e Rinascimento non c’è. Ad ogni modo il concetto di Rinascimento è diventato molto problematico. Si può definire col fatto che aumenta la frattura tra il ceto superiore e quello inferiore, che si sviluppano nuovi mezzi di comunicazione, che nasce un nuovo stile artistico. E anzi bisogna aspettare una generazione dopo la peste. Vi si può vedere, alla fine, una certa reazione ostinata. Dopo che la peste è tornata cinque, sei volte, e la miseria è ulteriormente cresciuta, letterati e artisti annunciano un’immagine dell’essere umano più positiva; dopo la miseria, adesso la dignità dell’uomo.
Una ulteriore tendenza nel tempo della peste fu la fuga dalle città. L’inurbamento crebbe lo stesso?
Di tendenze davvero nuove non ce ne sono. La storia segue il proprio corso con alcuni cambiamenti non irrilevanti. L’umanesimo come corrente culturale c’è prima, l’inurbamento c’è prima, l’evoluzione economica prosegue, anche se a un livello ridotto. La storia non viene né fermata né assume nuove fattezze. Ci sono dei cambiamenti, solo che il numero delle persone diminuisce. Il modello, che si è affermato a Milano, si impone sempre di più. Anche a Firenze. I Medici sono despoti velati. Governano fino al secondo quarto del XVI secolo dietro una facciata repubblicana. Le tendenze al dispotismo si rafforzano. I ceti preminenti prendono le distanze dai ceti medi. L’Europa diventa aristocratica. Questo non accade solo in Italia. A tale fatto io do questa formulazione: la peste cambia alcune cose, rafforza alcuni progressi, ma non determina nessun ripensamento reale e nessuna innovazione decisiva.
Un insegnamento del tempo della peste sarebbe quello di guardare il futuro in modo più tranquillo?
Questo sarebbe un concreto insegnamento, che si potrebbe trarre da questo periodo. Proprio durante l’epidemia ci sono state numerose fobie, che il mondo fosse vicino alla fine, che Dio desse inizio al Giudizio universale, che ci si sarebbe dovuti assolutamente preparare alla fine del mondo. I responsabili a livello politico non possono restare inerti, senza fare niente, perché in questo caso perderebbero la loro legittimazione. Bisogna che essi dispieghino attività febbrili che in gran parte sono prive di senso, talvolta controproducenti. Come quando, per esempio, si organizzano processioni e preghiere pubbliche. Tirare conclusioni autonome, prendere sul serio il parere degli esperti, fare poi confronti a grande raggio, i virologi e gli epidemiologi non sono stati in nessun caso unanimi. Proprio in tempi di crisi la razionalità è necessaria. Come, per esempio, accade col papa Clemente VI, il quale assolve gli Ebrei dalla perfida accusa di avere diffuso la peste, ed è anche in grado di dimostrarlo con chiarezza cristallina. E’ questo che si intende con il termine tranquillità. Trattare le cose nel modo più razionale possibile.
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