SullaStradaDelVino – Incontri nel cuore delle Langhe con Abrigofratelli: l’azienda raccontata da Ernesto Abrigo

SullaStradaDelVino – Incontri nel cuore delle Langhe con Abrigofratelli: l’azienda raccontata da Ernesto Abrigo

Di Susanna Schivardi e Massimo Casali

Torniamo oggi nelle Langhe, a Diano D’Alba dove incontriamo Ernesto Abrigo, proprietario di Abrigofratelli, azienda del Piemonte produttrice di Dolcetto e Barolo. Il racconto parte da lontano, quando il nonno di Ernesto “si sposta da quei di Barbaresco – come ci introduce il nostro ospite – con una famiglia numerosa, tipica del tempo, e come da tradizione si cercava di dare un pezzo di terra a tutti i figli”.

La cascina a Diano, dove ci troviamo oggi, risale al 1935, i vari figli si dividono e il nonno di Ernesto nel ‘37 viene meno. La nonna con i suoi due figli, quindi il padre e lo zio di Ernesto, allora di 12 e 6 anni, hanno cercato “di togliersi la fame in questi terreni, quando la vita era ancora fatta di cose semplici e si cercava di andare avanti con l’agricoltura”. La vita è raccontata dal lavoro della terra, il bue e il giogo, ed Ernesto con questi pochi affreschi già ci regala un assaggio di quello che deve essere stata la sua infanzia in questi luoghi.

Nel decennio tra il ’60 e il ’70, il padre di Ernesto Aldo e il fratello Franco iniziano a condurre insieme l’azienda che prende slancio da quella che era stata finora un’attività prettamente contadina. Il giovane Ernesto studia alla scuola enologica di Alba, dopo il servizio militare si occupa di piccoli lavori saltuari come enologo e tra il ’78 e il ‘79 inizia a vinificare e tutto già si delinea sotto forme più nitide, “l’azienda allora aveva anche i noccioleti e il bestiame, poco a poco si è disegnata, eliminando il bestiame, le stalle sono state trasformate in cantina e agli inizi del 2000 la cantina ha preso l’aspetto che ci regala oggi”. Campi vocati a vigneto ma anche a noccioli che oggi danno ottimi frutti per guarnire la nota mostarda di uva, la cosiddetta cugnà, una sorta di melassa ottima con del pecorino stagionato.

“La cultura di allora, trovandoci a Diano D’Alba, era dedicata al Dolcetto, tutta uva che negli anni ‘60 si vendeva ai privati”. Negli anni ‘80 la famiglia Abrigo comincia a mettere le etichette con il marchio Abrigofratelli sulle bottiglie “col tempo ho avuto due figli – racconta il nostro ospite –  Walter ha fatto la scuola enologica e si è laureato in Scienze Naturali e oggi lavora in campagna, mentre mia figlia ha sposato Emanuele Antona, il nostro enotecnico. A completare la conduzione dell’azienda la sorella di Ernesto, Mariarita, che sorridendo lui definisce la tappabuchi. Ernesto non ama fare l’imprenditore, spera che le nuove generazioni si occupino poco a poco della conduzione dell’azienda. “Io preferirei lavorare in vigna, controllare l’uva, il terreno, che chiede attenzioni continue”.

I vini che ci ha inviato Ernesto sono importanti. Di grande spessore, non facili da immaginare come aperitivo, vista l’ora del collegamento, ma a noi interessa scoprirne il sapore dove si racchiude tutto il racconto di vita di Ernesto e della sua famiglia. Il Langhe bianco composto da Chardonnay, Arneis e Favorita o vermentino ligure, ci spiega il produttore “nasce dalla vinificazione di tre vitigni. Abbiamo deciso di fare un solo vino con tre varietà di uvaggio, dando vita al Lumiè, un nome che deriva da una breve vicissitudine tra me e mia moglie. Durante la vendemmia – continua Ernesto-  stavamo discutendo come accade sovente, ma a volte ci scappano anche discorsi più costruttivi, come quello che ci ha visto d’accordo sul nome. Abbiamo stabilito di chiamarlo inizialmente Lumier, dal toponimo Luma di Diano, la sottozona in cui si vendemmia buona parte dell’uva per la sua produzione. Da Luma a Lumier la via di mezzo dalla pronuncia più semplice è stata alla fine Lumiè. Un nome che ha funzionato bene, vuol dire tutto e niente! Però è stato azzeccato, molti ce lo chiedono e non lo chiamano Langhe bianco, ma Lumiè!”.

Due parole sull’Alta Langa che rimane una curiosità di Massimo, a cui Ernesto risponde “pallino mio di dieci anni fa, perché i pazzi ci sono anche qua. Abbiamo iniziato con qualche bottiglia di spumante a nostro uso e consumo. Prima provando con 500 bottiglie, poi lo abbiamo lasciato lì ma la fretta di assaggiare ci ha spinto a stapparlo dopo 12 mesi, ma non rendeva. L’anno dopo abbiamo detto quasi quasi meglio fare 1000 bottiglie, questa volta però lo abbiamo lasciato 18 mesi. Usciamo quindi con 1000 bottiglie, pensando di non esaurirlo, ma anche stavolta ci eravamo sbagliati. L’anno dopo arriviamo a 2000 bottiglie, e nel frattempo era già uscito qualcuno con Alta Langa. Affittiamo così un vigneto a 650 metri che abbiamo inserito nell’Alta Langa, e nel frattempo, tra regalare e far assaggiare, bere e aspettare abbiamo imparato che prima dei 36 mesi non è bene farlo uscire dalla cantina. Adesso andiamo avanti fino anche a 45 mesi, cerchiamo di allungare il più possibile, ed è infatti giunto il momento di vendere il 2016.”.

L’azienda all’oggi produce almeno 35.000 bottiglie che arrivano in America, Germania, Norvegia, Danimarca, Belgio, nonostante non si imbottigli ancora tutto.

“Nel mondo del vino la storia è importante – ci dice Ernesto che apprezza chi si interessa anche a quello che esiste dietro una bottiglia –  tradizione e tecnologia devono viaggiare insieme, ma è la storia che rimane nel tempo, la storia del bue e del giogo con l’aratro, che ormai non usiamo più, ma che rimangono simbolo di una viticoltura pulita, meccanizzando quello che si deve, ma con il ricordo costante di quello che si usava un tempo, l’estirpatrice e l’erpice, le falci per l’erba estiva”. Ernesto ha una grande esperienza, ha visto anche il diserbo chimico e poi il ritorno al verme, al rispetto per la natura, per i vitigni, la ricerca della qualità e la selezione sempre più attenta e di stampo classico del prodotto.

Ernesto arriva a poco a poco a parlare del terroir, un argomento che gli sta particolarmente a cuore, perché intorno ad esso si è sviluppato nel tempo un confronto costante tra Nebbiolo e Dolcetto. “Dove sono nato io, proprio qui in questa terra, il terroir Diano D’Alba ha avuto   la sua storia. Nel ’72 è stata istituita la DOC del Dolcetto di Diano d’Alba o Diano d’Alba e successivamente la DOCG. Ci devono essere persone come voi – e intende chi si occupa generalmente di comunicazione –  che parlino del Dolcetto, un vino a tutto pasto, fragrante, che rispecchia il territorio. Il Dolcetto di Diano cresce sulle marne, ha la morbidezza, la longevità nel tempo mantenendo le caratteristiche, e una forza che non esiste nelle zone di Barolo, dove un tempo c’era il dolcetto ma è stato soppiantato per coltivare il Nebbiolo”.

Il Dolcetto di Diano d’Alba DOCG ha la potenzialità di 1.200.000 circa bottiglie l’anno, perché si fa solo in questa zona, è un prodotto unico e noi oggi abbiamo la fortuna di assaggiarlo. “Si chiama così – ci spiega Ernesto – per il sapore dolce dell’uva, è un’uva che si mangia e quando si beve si sente il profumo del frutto trasportato nel vino”.

“Il Dolcetto è un vitigno molto difficile, al contrario del Nebbiolo che troviamo dalla Valtellina al Novarese, ed è molto più diffuso. Il Dolcetto invece se si trova in terreni forti cade tutto per terra prima della maturazione, in terreni leggeri non dà colore, ha bisogno di un terreno vocatissimo per lui. Per questo ogni volta che impiantiamo un vigneto studiamo a fondo il terreno, grazie anche alla collaborazione dell’Università di Torino, e gli studi ci conducono ad una selezione molto decisa”. Questo vitigno rispecchia un habitat difficile, duro da lavorare. Ernesto si vanta, nonostante la meccanizzazione, di effettuare molte lavorazioni a mano, “la potatura, la raccolta, il palizzamento e la potatura verde”.

Dopo una breve deviazione sul valore del monovitigno, difeso da Abrigo come un valore che in Italia si riscontra più spesso che in paesi come la Francia, dove i blend sono all’ordine del giorno, il nostro desiderio è ascoltarlo parlare dei momenti che lo legano alla sua terra “il momento più bello – ci racconta con un sorriso – è quando nevica di inverno, oppure  durante il germogliamento quando vedi già come andrà l’annata, quando si passa in vigna e le uve sono quasi mature e già leggi quale sarà il vino futuro”. Le vendemmie sono il suo mondo, “io preferisco stare in vigna a contatto con la natura, lascio agli altri lo spazio in cantina, e quando c’è la raccolta del Dolcetto con le ceste, quando hai davanti una vite che ti da quei grappoli e li raccogli, hai voglia di dare un morso per gustarne il succo, ecco quel momento vuol dire assaggiare l’uva, dove si sente il profumo e l’aroma che si ritroveranno nel vino”. Non a caso un tempo c’era la cosiddetta cura del Dolcetto, “i ricchi proprietari delle cascine venivano in queste campagne a comprare il vino e si fermavano nelle loro grandi dimore, e quando arrivavano in autunno controllavano i mezzadri e ne approfittavano per fare questa cura, nutrendosi tutto il giorno a base di uva dolcetto. Ma solo Dolcetto –ci rassicura Ernesto – un’uva non acida al contrario del Nebbiolo”. 

Ernesto ci lascia guidare la degustazione, così cominciamo subito da Lumiè il suo Langhe bianco.

Apriamo la bottiglia e troviamo subito un’intensità importante, probabilmente gli uvaggi realizzano pienamente il loro ruolo, ricordiamo che questo vino è prodotto con un blend di Chardonnay, Favorita ed Arneis. La mineralità prende subito il suo posto poi a seguire frutta a polpa bianca, fiori freschi e qualche nota balsamica. Al palato la percezione dei singoli vitigni appare ben definita con la mineralità, sapidità e freschezza della Favorita, il corpo dello Chardonnay e l’avvolgenza dell’Arneis, ottima anche la persistenza che lo rende equilibrato ed eccellente. Da poter abbinare come aperitivo a delle tartine con burro slow food dell’alto Elvo con salmone selvaggio o a cena con una pesce al forno non troppo elaborato.

A seguire il primo dei vini rossi che andiamo ad assaggiare è il Diano D’alba DOCG 2019. Il marchio dell’uva Dolcetto è subito molto evidente con una morbidezza piacevole ed intensa. Buona anche la complessità. Ernesto ci racconta che il profumo che stiamo avvertendo è lo stesso che potremmo provare in vigna al momento della vendemmia, mettendo il naso in un grappolo di dolcetto. In bocca la morbidezza è presente ma la freschezza non manca rendendolo perfettamente equilibrato. Vino a tutto pasto da poter bere come aperitivo con dei salumi o, come ci consiglia Ernesto, anche con qualcosa di fritto e perché no anche con un bel carciofo alla giudìa, da buon intenditore di cucina romanesca. E’ ottimo anche d’estate servito fresco a 12°c.

Il vino che segue è il Diano D’alba superiore d.o.c.g. 2018 chiamato da Ernesto “Pietrin” in ricordo del vecchio proprietario dell’appezzamento, presto il nome Pietrin verrà riportato in etichetta.

Ernesto ci fa notare subito l’amore che prova per questo vino e per quest’uva ed è fiero di produrre vini monovitigni autoctoni della zona, in questo caso il dolcetto. Questo vino proviene da vigne vecchie, con una resa per ettaro di circa 40q/ht che lo rende corposo e complesso.

Rispetto al fratello minore, questo superiore ci appare subito più intenso al naso con una freschezza pronunciata. Profumi di frutta rossa matura, tabacco, liquirizia, confettura, pepe nero e spezie. Al gusto i suoi 15° gradi alcolici sono perfettamente amalgamati a tutto il resto con dei tannini molto presenti ma di ottima qualità. Rimane sempre quella rotondità data proprio dal vitigno ma accompagnata da una ottima acidità che lo rende equilibrato. Prima di essere messo in commercio questo vino subisce un affinamento in vasche d’acciaio per 9 mesi.  Ernesto sottolinea che questo vino viene prodotto solo in annate nelle quali l’uva ha raggiunto le caratteristiche di qualità eccellente. Ottimo da abbinare con formaggi o carne rossa anche a tartare.

Arriviamo ora al Barolo Ravera d.o.c.g. 2015.

Vino prodotto nella zona di Ravera di Novello ad un altitudine di circa 400 mt. Affina in botti di rovere per 24 mesi e poi circa 6 mesi in bottiglia. Profumo molto intenso e speziato con frutta rossa, di ottima qualità.  In bocca intenso e complesso ed equilibrato con l’acidità. I tannini ben presenti ed abbastanza persistenti, ma di ottima qualità, ci indicano che possiamo aspettare ancora qualche anno. L’affinamento in legno non tostato lo rende sicuramente più vellutato e corposo senza cedere note terziarie eccessive. Vista la presenza di un tannino così importante abbinerei questo vino ad un piatto di carne più succulento come una fiorentina alla brace o ad un brasato.

Siamo arrivati all’ultimo vino, purtroppo perché avremmo continuato per ore. Ernesto tiene perfettamente la cattedra facendo anche da portavoce del consorzio Albeisa che vi invitiamo a visitare e che si fa portavoce della caratteristica bottiglia utilizzata da Abrigofratelli.

Barolo Ravera d.o.c.g. 2014.

In controtendenza con quasi tutta Italia per il Barolo l’annata 2014 non è stata poi così disastrosa. Rispetto al vino precedente cambia soltanto l’annata di produzione.

Ovviamente, come dicevamo in precedenza, avendo un anno in più in bottiglia i tannini di questo vino sono già più morbidi e delicati. La freschezza sempre ben presente fa da ottima spalla ai sapori di confettura e spezie. Vino più equilibrato del precedente ma con la voglia di aspettare ancora qualche anno. Da poter abbinare a tartare di carne, ovviamente la Fassona Piemontese, o anche a formaggi stagionati.

Il nostro viaggio nelle Langhe termina qui, ma solo temporaneamente. Torneremo con altre aziende perché, come del resto in gran parte d’Italia, i prodotti di questi territori sembrano davvero vocati alla fama e alla notorietà, e difficilmente passano inosservati.

A cura di Susanna Schivardi e con il contributo di Massimo Casali per la degustazione e le note tecniche.

***Tutte le immagini sono state fornite dall’azienda vinicola Abrigofratelli

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