Giuseppe Di matteo. Un martire che come tale va onorato

Giuseppe Di matteo. Un martire che come tale va onorato

Di Padre Maurizio Patriciello

Giuseppe. Non è mia intenzione parlare della mafia, oggi. Non voglio nemmeno soffermarmi sulla figura di Giovanni Brusca, il cui profilo criminale è noto.

Oggi nei miei pensieri ci sei tu, Giuseppe. Sono passati 25 anni dalla tua morte atroce, raccontata dai tuoi aguzzini senza alcuna emozione. Perché per loro fu solo un fastidioso fatto di routine.

Voglio parlare di te e con te, Giuseppe, perché ho notato che tanti tuoi coetanei di ieri e di oggi ti conoscono poco. E così anche tu e la tua storia rischiate di passare inosservati. E invece sarebbe ora che al tuo nome venissero dedicate vie, piazze, scuole, e non solo in Sicilia.

Nel campo di sterminio di Auschwitz, in una delle tanti baracche puzzolenti, venivano ammassati i bambini affamati e seminudi. Ho pensato che tra le tante barbarie subite, quelle povere creature potevano almeno stare insieme, parlare, giocare.

Tu, invece, Giuseppe, sei rimasto completamente solo per 779 giorni. Da impazzire. Avevi 13 anni quando, con l’inganno, fosti rapito. Ti dissero che ti avrebbero portato da tuo padre, eri diventato, invece, merce di scambio, carne da macello. Dimmi, Giuseppe, che cosa hai pensato in quelle giornate buie, interminabili, sempre uguali? Come hai fatto a superare la paura, il panico, l’angoscia?

Sai, sono stato a San Giuseppe Jato, sono sceso, come andando in pellegrinaggio, nel bunker dove hai passato gli ultimi mesi della tua vita. Avevo ricevuto il compito di commentare in televisione il vangelo della domenica in luoghi diversi. Non persi tempo e corsi da te. Rimasi sconvolto, inorridìì, come già mi era successo a Dachau e ad Auschwitz. Scesi in quel buco angusto dove finanche alla luce e all’aria era vietato l’ingresso.

Un caro amico siciliano, aveva provveduto a farmi raggiungere da un gruppo di studenti. Come me, quei ragazzi, avevano il volto sconvolto e gli occhi gonfi. Dopo aver deposto un fiore sulla rete arrugginita sulla quale eri costretto a rimanere sdraiato, ci ritrovammo per un incontro. Mi aspettavo le loro domande: « Perché è successo? Con quale coraggio hanno fatto questo? Gli aguzzini di Giuseppe possono ancora essere chiamati uomini? Non sarebbe meglio ripristinare, per reati come questi, la pena di morte?». Quegli studenti interrogavano un prete, un uomo di Dio, uno che avrebbe dovuto saperne più di loro. Avevano tanta voglia di maledire chi ti ha fatto male; di protestare con chi non aveva saputo difenderti.

Lo Stato? Dov’era lo Stato? Perché non fu capace di liberarti? Fu fatto, allora, tutto quello che si sarebbe potuto fare? Domande imbarazzanti, certo, ma non come quelle che da sempre ci scorticano l’animo, ci lacerano il cuore, ci picconano la mente. Dov’era Dio in quei terribili mesi? Perché non si mosse a pietà?

La nostra fede ci insegna che proprio nei momenti più bui e dolorosi, Dio è accanto a chi soffre, ai poveri, ai bambini innocenti. Io ci credo, ma, figlio carissimo di tutti gli italiani onesti, illumina la mia riflessione. Dimmi: hai avvertito, in quelle ore spaventose, la consolante presenza di Dio? Venne Gesù a tenerti compagnia, come leggiamo nella vita di tanti santi? E gli angeli? Hai potuto vederli, parlare, giocare con loro? Io sono certo di si, sono convinto che in quel covo non sei mai stato solo.

Ho avuto anche modo di conoscere Santino, tuo padre. Mi disse, tra l’altro, che la mafia dei tempi passati aveva dei valori, non avrebbe mai toccato i bambini. Compresi che anche lui aveva dato credito a questa vecchia favola. Non è vero. La scala che porta nei meandri dell’inferno non finisce mai. Al contrario, più si scende verso l’abisso più diventa insidiosa, fascinosa, seducente. Tuo padre, Giuseppe, non ritornò sui suoi passi. E noi gliene siamo sempre stati grati. Perciò la tua presenza divenne inutile, ingombrante, pericolosa. Decisero di eliminarti. E lo fecero in modo barbaro. Disumano.

Il racconto della tua morte fatto da Vincenzo Chiodo è agghiacciante. Di te non doveva rimanere niente. E così fu. La vendetta era consumata. La lezione a tuo padre era stata data. Per quegli “ uomini d’onore” tutto era finito. Per te, invece, tutto stava cominciando. Se solo avessero potuto vederti!

Iniziasti a volare, libero e felice, per i cieli infiniti, i tempi eterni. Il bunker di San Giuseppe Jato deve diventare non solo il luogo dei ricordi ma una sorta di santuario. Gli studenti, italiani e stranieri, insieme ai genitori e agli insegnanti, dovranno recarvisi per conoscere, imparare, inorridire, sperare, pregare, come avviene per i campi di sterminio. La politica italiana deve fare in modo che nulla vada perduto dell’ atroce sofferenza patita da questo ragazzino. La memoria del male compiuto da certi nostri fratelli in umanità deve rimanere viva perché nessuno si lasci più ingannare, corteggiare, ammaliare dalla sete del potere, del successo, del denaro. Al contrario, perché tutti possiamo cedere alla seduzione e al fascino del bene, del bello, del vero.

La storia del figlio di Santino deve entrare nei libri di scuola, nei dibattiti, in televisione. Giuseppe Di Matteo è un martire. E come tale va ricordato e onorato. Piccolo, caro martire, perdonaci se non sapemmo tutelare la tua giovane esistenza.

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