Il RubaCovid

Il RubaCovid

Di Anna Izzo

Non esiste personaggio, pubblico o, soprattutto, privato, informato in merito o, soprattutto, del tutto scevro delle più basilari norme igieniche (per questo motivo meritevole di ostracismo sociale, in un Paese civile che si sia astenuto dal dare il proprio contributo, molto spesso mettendo a repentaglio la propria dignità morale, sul Corona Virus Disease 19 (per gli amici COVID, per chi è ora che posi il fiasco “il Corona”).

Tralasciando luminari che, abbandonati i laboratori polverosi e le sudate carte, sono ormai divenuti vere e proprie star, contesi dai programmi d’informazione come Lionel Messi e Cristiano Ronaldo in offerta speciale dai maggiori club calcistici, attorno alla Pandemia che flagella il Mondo rotea un’umanità variegata e ciarliera, oltre a qualcos’altro. Mentre ci si azzuffa su chi dare la colpa (di aver creato il virus in laboratorio, di essere intervenuto in ritardo, di aver fatto nottata al Billionaire, di aver reso Gallipoli un gallinaio di pubescenti esagitati, di aver fatto della didattica a distanza un business, di ritenere gli over settanta inutili allo sforzo produttivo, di aver creato un mostro di nome Amazon che si nutre dei piccoli negozietti di quartiere dove una presa tripolare costa 25 euro), si perde di vista, come al solito, il succo del discorso: il Covid si muove su gambe umane, ma ha anche  una notevole attitudine nell’utilizzare le mani altrui. Mani di velluto, come nella migliore tradizione mariuolesca: ci sta privando di tutto ciò che è importante. È un “rubacovid”.

Con complici della peggior risma, quindi i migliori, il Covid ci ha tolto:

  • Il contatto umano

Manteniamo la distanza di sicurezza non solo fuori casa, in mezzo a “quella compagnia picciola” che prima del 9 marzo scorso era comunemente denominata “folla”, ma anche con chi conosciamo e incontriamo per caso e dopo un lungo tempo. E visto che “la lontananza, sai, è come il vento, che fa dimenticare chi non s’ama”, come scriveva Enrica Bonaccorti (altro che cruciverboni truccati, ragazzi! Poesia…), poco ci importa di schivare con un che di repulsione vecchi colleghi taccagni o vicine di casa pettegole, i primi con mascherina modello Coniglietto Bunny resa pelosa dal continuo riuso e le seconde con quella chic, a Wonderbra coppa B con copertura in raso e paillettes, ma… Gli occhi. I maledetti occhi. Vecchi amori mai sopiti che si vorrebbero solo stringere forte all’affannoso petto e baciare con passione e affancuore la mascherina e il droplet, amici di gioventù con cui si berrebbe volentieri un caffè o un aperitivo, ridendo sguaiatamente dei ricordi del tempo andato, bambini fino a qualche mese fa poco più che lattanti che ti corrono incontro con la loro risata argentina e lo sguardo che sprizza gelato/brioche/succo di frutta/caramelle. E noi niente: salutiamo toccando il nulla col gomito e, rifacendoci all’atavica abilità italiana nel gesticolare, promettiamo di risentirci “quando tutto sarà finito” (nel caso dei bambini i genitori sono ottimi interpreti). E ce ne andiamo, in osservanza dei decreti per il contenimento della diffusione etc etc, ma un po’ più soli.

  • Il rapporto coi genitori anziani (per chi ancora li ha)

Tralasciando per un attimo il senso atavico di rispetto e dedizione obbligati che l’Italia ha (o dovrebbe avere) nei confronti delle sue radici, e preso atto che, se Enea scappasse dopodomani da Troia, prima si premurerebbe di lasciare il padre Anchise sì al sicuro, ma o in un ospizio, o affidato alle amorevoli cure di una badante ucraina, gli anziani, si sa, sono la categoria a rischio per eccellenza, e i figli, col Covid che imperversa, anche nel caso di abili e rampanti CEO di Società quotate in Borsa, non sanno come rapportarsi a mamma e babbo ormai canuti, spesso già affetti da malattie strazianti (per un figlio mammone, anche una semplice rinite allergica di cui la madre soffre da tempi immemorabili è una tragedia). Che fare? Andare noi da loro? Far venire loro da noi? Si sbaglia comunque: hanno abitudini e routine dettate da una legge non scritta che si chiama “ce la posso ancora fare, ho visto di peggio”, sono affezionati ai loro spazi, ci amano alla follia ma, dopo una certa, su da doss e ognuno a casa sua. In caso di bisogno, faranno sapere. E dopo due nanosecondi squilla il telefonino: è la mammina, che chiede su che canale vada in onda il programma di quel tizio che promette di far vivere tutti come minimo 120 anni, mentre, in sottofondo, papà urla ché è stanco di sentire parlare di malattie, morte e vite a tempo indeterminato. Se avesse voluto vivere così, avrebbe studiato filosofia. E sarebbe morto di fame da mo’ (di sicuro, almeno, non si sarebbe sposato tua madre, col senno di poi).

  • La fiducia nella politica (o quel poco che ci restava in merito)

No comment. Davvero, tutto qui: no comment. L’unica è scendere in piazza e protestare, ma Ilic’ Lenin, che in merito ne sapeva, ci aveva avvertiti: “gli elementi criminali prenderanno il sopravvento, finché non avanzerà il leader, il quale, silenziando il clamore, otterrà la fiducia del popolo, indi il potere assoluto”. Già si combatte contro una presunta “dittatura sanitaria”, ci manca solo una dittatura radicale di stampo comunista (di quelle “alla grande”).

  • Il rapporto col tempo

Siamo tentati di andare in cerca delle uova di Pasqua artigianali o di allestire i balconi per “l’arrustuta” di Ferragosto: solo una lievissima percezione di cambiamento climatico ci rende vagamente consci del susseguirsi inarrestabile delle stagioni (giusto perché usiamo i vestiti: se fossimo nudi come i nostri antenati o come qualche svalvolato attuale il problema non si porrebbe). Il ritorno all’ora solare ha calato l’asso di briscola sui nostri bioritmi ormai dipartiti: burnout, altro che lockdown. Ci si sveglia di notte cercando spasmodicamente di capire che ora sia e, una volta svelato l’arcano, il tempo di calcolare quanto manchi al trillo della sveglia e siamo già seduti davanti al computer, freschi di doccia, con in bocca il buon sapore del caffè e vestiti di tutto punto. Memori dell’avvento dello smartworking e una volta resici conto di essere in casa nostra, e non in ufficio o altrove, l’ora fugge e moriamo disperati (e suicidi): iniziamo a metterci comodi (almeno dalla vita in giù) e a lavorare, lavorare, lavorare… Dimentichi di tutto, dalla pausa pranzo ai figli che protestano per la giusta causa di avere troppi compiti di aritmetica. E, così facendo, produciamo il triplo e ci stanchiamo il quadruplo. La corretta percezione del passare delle ore? Ce la fornisce solo il Presidente Conte. Tempo medio prima di apparire in pubblico per comunicare un nuovo DPCM? Quarantacinque minuti. Prima di arrivare al dunque, dopo un preambolo? Mezz’ora. E sette minuti di dunque.

  • La sanità mentale

Comincio a credere che le multinazionali del farmaco abbiano i loro sporchi interessi, in tutto ciò: tutti pronti a rifornirci di mascherine, alla bisogna, igienizzanti per mani ovunque, ma le benzodiazepine? I had a dream: boccioni da ufficio di Valium poco diluito per le strade, in punti nevralgici, piantonati dalla polizia stradale onde evitarne l’abuso (come diceva quel tale? “Si serve la Patria anche solo facendo la guardia a un distributore di benzina?” E allora! Non sarà altisonante come USI A OBBEDIR TACENDO E TACENDO MORIR, come motto, ma è già qualcosa) … Vi rendete conto del bailamme attraverso cui si muovono, quotidianamente, i nostri neuroni? Appena si tocca qualcosa di inusitato, ci laviamo le mani (e per inusitato, intendo la cappa sopra i fornelli o qualche vestito risalente ai primi anni Novanta, magicamente ricomparso nell’armadio). Le nostre giornate sono scandite da lavoro, lavata di mani, spruzzata di gel igienizzante, gargarismo con collutorio in soluzione assai alcolica in caso di involontaria digitopressione sulle labbra (gli onicofagi? Non oso pensarci. Liberarsi di un vizio particolarmente fastidioso grazie alla strategia del terrore, con buona pace di neuropsichiatri infantili e psicologi e con grande scorno di chi ha speso somme consistenti di denaro, non fosse altro che in smalto trasparente e pepe). Di fronte a termini abusati come COPRIFUOCO o QUARANTENA (che poi dura quindici giorni), iniziamo a volgere al pallore più estremo, quello che caratterizza chi vive nelle tenebre senza governare col loro favore o essere come le lucciole; sentendo l’Italia divisa in zone verdi, gialle e rosse abbiamo la percezione di essere cittadini non di una Nazione, ma di un semaforo e iniziamo a cercare, in cantina, la scatola del Risiko, come riflesso incondizionato (per poi lavarci le mani e dare una passata di scopa a vapore alla suddetta cantina. Per poi lavarci ancora le mani).

Una volta appurata la non esistenza una medicina in grado di darci la quiete necessaria senza effetti collaterali di una certa entità (nonché gravità), l’Italiano medio si rifà, obtorto collo, agli strumenti che Madre Natura ci ha messo a disposizione (lascio la psichiatria e la psicologia ai casi “seriamente seri”): caffè rigorosamente decaffeinato, camomilla a profusione, mindfulness (la musica di fondo, almeno, fa dormire che è un piacere, solo che poi, al risveglio, non ricordi giorno, mese e anno. Anzi, no: l’anno lo ricordi. ECCOME se lo ricordi) e litigate furibonde col partner per motivi più che futili. Quindi capisci che anche per approcciarti a te stesso, cosa che ti dovrebbe suonare familiare sin dalla più tenera età, hai bisogno di un aiuto, di qualcuno che conosca te e gli altri meglio di chiunque altro. Ma quanti soldi si saranno fatti gli “operatori olistici”, col Covid? Se la patologia è una ladra, costoro sono paragonabili a dei ricettatori.

A tale proposito, fonti autorevoli mi danno il corretto allineamento testa/collo/spalle/colonna vertebrale/gambe/piedi la panacea: trasformandoci in tante piccole uscite della grande autostrada che collega il mistero divino al mondo su cui poggiamo, guariremmo da tutte le malattie, perché siamo esseri speciali e lo/la specialista in “olisticologia” avrà cura di noi. Devo assolutamente proporlo a mio zio, visto che, dopo un incidente di una certa entità, ha una gamba di quasi sei centimetri più corta dell’altra. Che soddisfazione presentarsi nello studio e dire: “Riallineami questo, ciarlatano/a”! In effetti farebbe sentire molto, ma molto meglio.

Infine, proprio dulcis in fundo, il Corona Virus Disease catalogato nel novembre 2019 ci ha rubato il nostro posto nel mondo. Da animali sociali siamo diventati tossicodipendenti, schiavi delle serie TV di Netflix (quella di Jane Fonda è favolosa, comunque), canale a pagamento di semplice accesso, facile utilizzo e a basso costo contenente di tutto un po’, strutturato a mo’ di tela di ragno per tenerti invischiato (e noi, si sa, si è mosche perfette, visto che amiamo tanto passare da una deiezione all’altra senzarequie). Le poche volte che, misure restrittive permettendo, mettiamo il naso fuori di casa, diventiamo degli squadristi perfetti: ci basta un’occhiata, la percezione di una parola appena sussurrata e via al “dagli all’untore”, soprattutto nei confronti degli “eldest” (tu, caro ragazzino che a stento hai iniziato a raderti i baffi, non dici alla signora ultraottantenne che ha la mascherina indossata male: è vero, l’ha spostata per pulirsi gli occhiali, ma le reprimende spettano alle FdO o agli impiegati/commessi del luogo in cui sta accedendo, non a te, né a qualsiasi altro cittadino. Giù la testa e rispetto). Chiunque abbia riposto soldi e speranze in attività commerciali è ormai ridotto nei pressi della famigerata “soglia di povertà”, e chi ha il posto fisso (meritocrazia? Toc toc? Ci sei? No, non c’è. Siamo nella Repubblica Semaforo, in fondo)? Gode, come la più infame delle iene, proprio con la risatella di culCUORE, la risatella di cuore. Va bene: i segnali di una crisi economica erano più palesi di un elefante nel tinello di casa da oltre dieci anni (approssimativamente), ma i ristoranti, come ebbe a dire il buon Berlusconi, erano sempre e comunque pieni. E tutti noi abbiamo, chi più, chi meno, il pallino del “fare da mangiare”, nonché banche sorridenti e disponibili a elargire mutui facili e un bel cassetto pieno di sogni… Ora, che il nostro posto dovrebbe essere attaccati al telefono per prenotare a domicilio la specialità della casa, che facciamo? Ridiamo e godiamo. Perché siamo meschini. Perché siamo Italiani.

Adesso, visto che avremo nuovamente tempo per non fare un bel niente, oltre ad arieggiare gli ambienti domestici e a disinfettare anche la foto di classe di Prima Elementare, se ci mettessimo un po’ a pensare, a riflettere e a dare retta a voci magari egoreferenziali, magari drastiche, ma informate? Secondo me, ci farebbe bene. Quasi quanto una sessione di jogging all’aperto (con tanto di mascherina e in solitaria, se si vive in zona rossa).

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Gli Scomunicati è una testata giornalistica fondata nel 2006 dalla giornalista Emilia Urso Anfuso, totalmente autofinanziata. Non riceve proventi pubblici.

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