Di Francesca Silvestri
Molti definiscono il tempo che stiamo attraversando “tempo sospeso”. Ma quello che stiamo vivendo in ambito culturale, in particolare della piccola editoria indipendente, a mio parere, sarebbe più corretto definirlo “tempo dell’assenza”. Assenza dai lettori, dalle loro voci, dalle loro emozioni. Assenza dalla piazza, dalla strada, dalla sala, dalla biblioteca, dalle fiere dove portavamo il nostro essere editori diversi. Assenza dall’emozione, quel brivido che ti attraversa la schiena ogni volta che presenti un libro e che, come un figlio, dopo averlo messo al mondo, sai che il tuo lavoro non finisce lì. Sarai sempre tu a indicargli la strada, lo accompagnerai tra la gente e poi lo lascerai andare perché cammini con le proprie gambe.
Il tempo dell’assenza per l’editoria indipendente è un tempo involutivo. L’assenza e soprattutto l’abitudine a far a meno della socialità e della condivisione culturale è la disgregazione della civiltà. La poesia nell’antichità era solo orale, spesso cantata, come il teatro e la letteratura delle origini nelle sue forme più popolari: ogni opera viveva nel momento in cui veniva rappresentata pubblicamente. Oggi le presentazioni dei libri rappresentano uno dei pochi sistemi per alimentare la bibliodiversità, per tutti quei piccoli editori a cui la vetrina delle grandi librerie o delle grandi manifestazioni spesso è negata, non per mancanza di progettualità ma piuttosto per assenza di importanti fatturati.
Tempo di assenza di prospettive, soprattutto di un chiaro progetto educativo, sociale, culturale, politico per il futuro. Un paese in cui l’attività culturale viene considerata alla stregua del tempo libero, “non essenziale”, non può avere futuro. E poi l’assenza di dibattito (quello intelligente), di confronto, di scambio, anche acceso, di sano dibattito che un tempo non troppo lontano pervadeva gli ambienti intellettuali, le riviste, i giornali. Assenza totale delle voci che contano.
Molto preoccupante anche la soluzione prospettata: il contributo economico come la panacea di tutti i mali. La politica, invece di lavorare per trovare l’anello debole della catena e risolvere problemi atavici del nostro paese, dalla sanità pubblica alla scuola, dai trasporti all’inquinamento, dall’industrializzazione selvaggia alle infrastrutture di certe aree che cadono a pezzi in balia di terremoti, alluvioni, mafie, giochi di potere, contribuisce in questo modo alla diseducazione al lavoro e, di conseguenza, all’esercizio del pensiero.
Il Covid ha solo accelerato questo processo già in atto. Contributi e comodità sono direttamente proporzionali all’inoperosità. Ma intanto, rimanendo nell’oggi in questo tempo di assenza prospettica e lavorativa, chi difenderà le categorie più fragili? Facciamo qualche esempio. Ci siamo posti il problema gravissimo della violenza sulle donne aumentata a dismisura nei mesi di chiusura totale? Cosa si dirà alle famiglie con figli disabili o con problemi psichiatrici che non sanno come affrontare la quotidianità con la chiusura dei centri diurni o delle scuole? Il sostegno a distanza non è facile da attuare. Come spiegare alla madri lavoratrici che, tra i compiti e la Dad dei figli, forse riescono a trovare un piccolo spazio per lavorare, sempre ammesso che possano farlo in modalità “smart” o il lavoro l’abbiano mantenuto. Chi difenderà i nostri anziani dalla depressione chiusi da mesi nelle case o nelle RSA senza poter vedere mai un familiare, un prete, un amico. Forse li salveremo dalla malattia fisica, ma sicuramente non li salveremo dall’angoscia e dalla solitudine.
Se questo è il presente, dovuto si sa da emergenze sanitarie, non è così folle immaginare un futuro di persone chiuse nelle loro mura domestiche, sempre più avvezze fare tutto da casa, con il minimo necessario per sopravvivere (non importa se da un sussidio statale o da un lavoro “smart”), sempre meno inclusive, sempre meno desiderose di socialità o di uscire per frequentare teatri, librerie, cinema, il nutrimento della mente. Solo cibo e divano, poca attività fisica, nessun tipo di svago escluso quello di tv, social media, domotica, tutti eccellenti supporti per rendere sempre più agile e “senza pensieri” la nostra vita ai quali però dovrebbe (necessariamente) corrispondere la consapevolezza del nostro essere comunque sociali.
L’abitudine all’inattività (mentale e fisica) è pericolosissima. Per la politica non darsi come obiettivo prioritario una prospettiva di crescita culturale di un paese è una follia, soprattutto in tempi emergenziali. Considerare l’attività culturale come tempo libero è altrettanto irrazionale e pericoloso.
«Leggo per legittima difesa», scriveva Woody Hallen. Leggere significa farsi domande, esercitare il pensiero critico, e dunque scegliere da che parte stare, conoscere i rischi che questo “tempo dell’assenza” porta con sé.
L’assenza però non equivale al vuoto, c’è una differenza fondamentale: il vuoto è qualcosa che un tempo era stato pieno e, per ragioni diverse, non lo è più, l’assenza è un concetto che presuppone una mancanza totale, definitiva. Pensiamo dunque a questo tempo come un vuoto da riempire magari con nuova linfa, mettendo a dimora i semi dell’esperienza anche negativa e trasformandoli in prospettive concrete e virtuose, portando in circolo idee e levando le nostre voci non per distruggere ma per costruire. Trasformando questo tempo dell’assenza in tempo dell’opportunità.
Qualcuno però dovrebbe ricordare ai nostri governanti che gli editori, piccoli o grandi che siano, in quanto organi di informazione, hanno un codice Ateco che gli permette di lavorare, spostarsi e diffondere le proprie produzioni anche durante lo stato di emergenza e, di fatto, rende questo lavoro un’attività essenziale.
Da parte nostra continueremo a produrre e diffondere libri come presidi di bibliodiversità. Tornerà il tempo della lettura nelle piazze e nelle sale, per ora la porteremo anche a domicilio se necessario, come il cibo da asporto, perché la fame di libri venga sempre soddisfatta.
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Gli Scomunicati è una testata giornalistica fondata nel 2006 dalla giornalista Emilia Urso Anfuso, totalmente autofinanziata. Non riceve proventi pubblici.
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