Di Anna Lisa Minutillo
Era un operaio, aveva 47anni, alle spalle una separazione e crisi depressive che rendevano difficile il suo vivere. Una pistola detenuta illegalmente, puntata verso suo figlio di soli11anni, il colpo che lo raggiunge e spezza quella vita che aveva tutto il diritto di essere vissuta. La stessa arma la rivolge verso se stesso, un attimo, sospeso tra dolore e disorientamento.
Il boato, il buio, ed anche la sua vita termina.Termina portando con sé una visione tremenda, termina con quel senso di vuoto e solitudine interiore mai colmato, termina nel peggiore dei modi.
Così, in provincia di Torino, due vite spezzate, pochi istanti, il silenzio interrotto dal clamore per quanto è avvenuto. Prima del disastroso gesto, un lungo post affidato ai social, in cui questo padre parla degli ultimi difficili suoi anni di vita.
Racconta dell’amore per quel figlio incolpevole, del dramma della sua separazione, della sua malattia. Descrive la depressione come qualcosa in grado di logorarti quotidianamente, racconta dei suoi stati di ansia, dell’insonnia, della tachicardia che lo hanno devastato.
Sottolinea anche quanto questa spirale di cose lo abbia reso sfiduciato e anche quanto non avesse più voglia di soffrire. Rivolge anche parole dure nei riguardi della sua ex moglie che, a suo dire, avrebbe sottovalutato il suo stato di salute e le conseguenze che la malattia lo portava a subire. Le augura di vivere a lungo e di aiutare fattivamente una eventuale persona depressa che potrebbe incontrare nel cammino della sua vita.
Oggi, ovunque, questa notizia sta facendo parlare, chiunque si ritiene esperto, chiunque pensa di poter giudicare persone, situazioni, storie di dolore e di abbandono, ma anche di rinunce e sacrifici, che siamo inadeguati per poter affrontare da soli.
No, non si può commentare con superficialità, non si possono conoscere meandri della mente a noi sconosciuti, piuttosto bisognerebbe interrogarsi e cercare di capire, quando abbiamo smesso di essere persone, ed abbiamo iniziato a diventare malleabili, influenzabili, vuoti involucri che vagano su questo pianeta.
Ci lamentiamo di avere la libertà violata per l’utilizzo di una mascherina che preserva le persone con cui interagiamo, e poi non siamo in grado di vedere davvero dove tutta questa libertà, che usiamo male, ci sta conducendo. La confondiamo con l’egoismo che ci porta a mettere al centro noi stessi, dimenticando che non siamo da soli su questa terra. Lamentiamo gli abbracci che quando potevamo distribuire tranquillamente, non abbiamo mai dato.
Cerchiamo un contatto fisico senza averne uno empatico.
Dimentichiamo quanto corriamo senza mai voltarci anche solo per vedere chi resta indietro e se qualcuno lo fa, raramente, è per aiutare, ma spesso è solo per arrivare con la stoccata finale ad impedire che il cammino dell’altro possa proseguire.
Pochi mesi di isolamento ci hanno resi talmente affamati che le cronache traboccano di violenza gratuita, di intolleranza, di efferate aggressioni, di donne stuprate e continuamente offese da campagne pubblicitarie che non fanno altro che svilirle.
Ma, niente, tutti a parlare dopo, quando le brutalità sono ormai accadute, tutti in sommossa per situazioni che non dovrebbero accadere, ma tutti chiusi nel loro vecchio e stantio retaggio culturale, nel loro ego smisurato, nella loro mancanza di tempo.
Ascoltiamo scuse vecchie più del mondo e additiamo quei pochi sensibili, attenti, disponibili, come se fossero appestati. Diamo loro del «coglione», senza renderci conto che se qualcosa ancora funziona lo dobbiamo proprio a queste persone, o a persone come queste. Lamentiamo l’assenza dello Stato, delle strutture preposte, ma siamo presenti e vigili quando osserviamo i movimenti dei vicini di casa, quando costruiamo castelli su pettegolezzi non provati, senza renderci conto del male che quel dannoso chiacchiericcio può avere su chi lo subisce e sulla sua famiglia.
Esperti di comunicazione improvvisati, che curano pubblic relation, senza avere nessun rudimento in psicologia. Dannosi come erbacce per prati che vogliono fiorire ma si ritrovano infestati e soffocati. Stiamo attenti quando siamo nelle condizioni di farlo, chiudiamo le bocche troppo grandi correlate ad altrettanti cervelli troppo piccoli.
Non trinceriamoci dietro a giudizi approssimativi e approssimati, portiamo rispetto per il dolore altrui che non vediamo quando dobbiamo, ma giudichiamo quando dovremmo tacere.
Alla fine, siamo tutti un po’ complici e coinvolti, è che siamo bravi a sfilarci, quando invece dovremmo tornare a guardarci, a vedere cosa siamo diventati.
È labile il confine tra la così detta«normalità», e quella che definiamo follia.
È semplice continuare a confondersi per evitare di fondersi con gli altri, forse perché facendo questo, vedremmo anche noi… Forse, e sappiamo bene che l’immagine di rimando, non sarebbe di nostro gradimento…
**Immagine di copertina tratta dal profilo Facebook di Claudio Baima Poma
***Abbiamo stipulato un accordo con le autrici del blog scrignodipandora.altervista.org per la libera ridiffusione di alcuni loro articoli. Il pezzo originale di Anna Lisa Minutillo si trova al seguente link: https://scrignodipandora.altervista.org/quando-si-muore-per-mano-di-un-padre/?
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